Lunedi 2 ottobre 2006
Il segno inciso


Ho iniziato ad amare l'acquaforte nell'estate del millenovecentottantasette. Mi dissero ,dopo aver visto i miei dipinti , Se fai delle belle incisioni, le pubblichiamo ed io che subito non ci credevo, iniziai a muovere la punta. Era estate , la mia famiglia in vacanza, sola in casa rispolverai i materiali che avevo usato pochi anni prima all'Accademia e improvvisai ciò che non avevo. Usai il fondo della gabbia di Anacleto pappagallo fuggitivo per i bagni d'acido, scoprii che non lontano da casa abitava un signore che aveva un torchio calcografico rudimentale ma funzionante, chiesi a mia nonna di strappare qualche penna alle galline , mi attrezzai recuperando qua e là per la provincia zinco, cesoie, carte abrasive, petrolio, vernici , inchiostri calcografici, carta rosaspina, tarlatane e pinze, stracci e brunitoi, bianco di Spagna. Il segno partì subito fluido, necessario. Erano campi di grano sotto cieli tempestosi disegnati con segni-grafia. Istintivi e irruenti come non ha smesso di essere la mia natura. Per anni non mi fermai mai, non toccai pennello, non sentii neanche per un istante la nostalgia del colore. Quasi ogni sera, quasi ogni notte, avevo il mio appuntamento col segno inciso. Le opere sgorgavano (certo non mancarono anche i fallimenti e gli inciampi), avevo anche delle soddisfazioni da parte della critica ma non fu quello, credo, a farmi continuare così imperterrita e assolutamente dedita. Credo che ci sia qualcosa di particolarissimo nella tecnica dell'acquaforte, ed è in buona sostanza il fatto che, nonostante l'apparenza di tecnica pesante e sporca per tutto ciò che si usa, è in realtà una tecnica chiarissima di perfezionamento spirituale. Ci sono delle azioni così simboliche e forti nel fare un'acquaforte che è davvero difficile non vedervi una relazione con l'anima di chi ci si applica. Provo a parlarne, senza commentarle. La lastra di zinco per esempio, grigia ed opaca, deve all'inizio del processo venir lucidata alla perfezione fino a quando dal non veder nulla sbuca a poco a poco, il veder sé stessi. Ecco, è là che si parte, quando si vede se stessi ( vendono anche delle lastre già lucidate ma io ho qualche dubbio sul fatto che sia la stessa cosa). Si sgrassa poi la superficie della lastra, si mette la vernice, si affumica e si inizia a disegnare con la punta. Qua avviene un'altra cosa particolarissima, e cioè si lavora con metodo e rigore in un campo di assoluta precarietà. Disegni tuo nonno, disegni il nero e sette grigi che gli fanno da controcanto, disegni la lotta di Giacobbe con l'Angelo? Non ha importanza quel che tu hai deciso di disegnare, il problema è un altro e cioè che la tua opera non esiste, non esiste ancora, non è quel che tu vedi. Lavori nel campo reale/ immaginario che è la matrice , l'opera vera sarà speculare rispetto a quello che tu stai disegnando, e oltre a questo grigi e neri saranno decisi solo dall'azione successiva dell'acidatura. Mi è capitato tante volte , folle come sono stata, di sfidare le temperature più cocenti dell'estate , di vincere la mia paura delle vipere per arrampicarmi in luoghi reconditi delle colline a disegnare. Bene, io sapevo tornando con la mia lastra disegnata la cui cera rischiava ogni istante di sciogliersi al sole che nulla essa era ancora, se non sogno dell'opera, fragilissima imbastitura, sentiero appena evidente nell'erba alta. E una volta a casa via di corsa a guardarla allo specchio per vederla lentamente apparire, mostrarsi ma ancora virtuale, non ancora esistente trama di segni che racconta il reale.
Solo l'acidatura trasforma il segno disegnato in segno inciso. Lentissime morsure d'argento o rabbioso acido che si sbrana lo zinco? La stessa lastra disegnata può diventare mille cose diverse a seconda della forza dell'acido, della quantità delle morsure, ai tempi delle stesse, alla pazienza che uno ha o non ha di star lì con la penna di gallina a rimuovere le bollicine frutto della reazione chimica ( il segno che ne esce può essere alternativamente nitido o slabbrato).
A questo punto, con la matrice in mano, iniziano le tante variabili legate alla fase di stampa, si saprà scegliere la carta più adatta a quella matrice, la giusta grammatura, il giusto tono di bianco, la si saprà bagnare al punto giusto, si userà il giusto inchiostro, si saprà pulirla alla perfezione col palmo della mano, sarà necessaria la tarlatana per tirar su i neri, si sceglierà la giusta pressione del torchio?
Questo è per me la tecnica l'acquaforte, questo è stata e questo continua ad essere anche ora che per molte ragioni non la pratico quasi più. A volte mi capita di sentir nascere nella mia mente un pensiero e di visualizzarlo, segno d'argento che danza sull'ambra della vernice affumicata ; lo coltivo pian piano, senza fretta e con rigore , con rigore lascio entrare nel gioco anche il Caso sapendo benissimo la larga parte che giocherà e insieme sapendo che nulla, nulla sarà perduto fino alla fine.


Autoritratto a Natale, 1988
acquaforte, mm152 x 500

Lunedì, 2 Ottobre 2006
Spazio

Una delle mie più grandi emozioni è quella dello spazio. Da sempre. Una volta ero seduta con mia madre nel giardinetto verso la strada della casa dove sono nata. Eravamo sedute su una panchina che aveva fatto mio padre con l'ingegno che dimostrava in ogni suo gesto. Mia madre sedeva accanto a me, ricordo che mi stava leggendo qualcosa, dev'essere stata l'unica volta in tutta la mia vita. Aveva sempre troppe cose da fare, ed era un lusso che non si poteva permettere. Mio padre la chiamò, con la severità che conoscevamo bene, non della cattiveria, che non gli apparteneva, ma delle cose che dovevano essere fatte. Quel suo chiamarla così forte mi fece trasalire perchè allontanò in un istante da me una perla di felicità che per la prima volta conoscevo, la felicità delle parole scritte , lette e condivise nella vicinanza affettuosa dei corpi . Non ricordo niente, dopo, non il correre di mia madre per vedere cosa c'era da fare, non il giungere di mio padre perchè lei si affrettasse. Ho nella mente invece la visione chiarissima della mia casa dall'alto, in un movimento lento di macchina che mi portava su e mi teneva sospesa in alto. Sono certa che là è nata la mia ossessione per le visioni dall'alto, questa idea del tirarsi fuori dagli affanni, da ciò che non comprendi perchè ne sei invischiato e ti fa male, e invece dall'alto osservare, dall'alto attendere, dall'alto capire il disegno e trovare un nuovo equilibrio, un nuovo centro per poi tornare giù, a riprendere da dove hai lasciato.



Paese dell'anima, 1989
acquaforte e puntasecca
mm257 x 250



Soulscape 1999, carborundum,

Mercoledì, 4 Ottobre 2006
(Tele racconto)

(Foto tratta dal catalogo della mostra Domenico Gnoli. Un nuovo sguardo, 2001, edito da Silvana Editoriale).
Ho messo a posto lo studio, riguardato ad una ad una le tele.
Quelle finite, tengono nel tempo, vengono da lontano.
Quelle finite da poche stagioni, sembra bene.
Quelle che sembravano finite e invece c'è un qualcosa che non va.
Quelle che sembravano finite e invece c'è da ricominciare.
Quelle che sembravano un fallimento e non sono poi male.
Quelle da dipingerci sopra.
Quelle da buttare.
Quelle da iniziare ( le ho accarezzate ad una ad una).



Domenico Gnoli
Veduta posteriore, 1969
Acrilico e sabbia su tela

 

Venerdì, 6 Ottobre 2006
Bambini e meraviglia


Sono giorni che penso a questo dipinto, un bisogno quasi fisico di rivederlo, parlarne non mi sarà semplice, visto che è uno di quei lavori di fronte ai quali è meglio stare zitti. Chissà perché ero convinta che fosse alla National, e l'ho cercato con insistenza nel sito ufficiale, finchè mi sono rivolta ad un'amica e lei mi ha mandato l'immagine ed anzi di più, il link ad un sito interamente dedicato all'opera di questo artista , John Singer Sargent (http://jssgallery.org/index.htm). Questa è universalmente ritenuta una delle sue opere più belle, ed è alla Tate Britain.Quando l'ho vista qualche anno fa, mi ha letteralmente paralizzato. Dietro un'apparente realismo fotografico e descrittivo, credo si nasconda un quadro che in realtà ragiona di pittura e di quel che la pittura è, luce luce luce. Le diverse sorgenti luminose (le lanterne cinesi e le ultime luci del tramonto) creano nel dipinto un'atmosfera particolarissima e sospesa. Sappiamo che Sargent impiegò molti mesi a realizzare questo dipinto perché quel particolare effetto luminoso durava pochi minuti durante i quali egli lavorava per fermarsi non appena esso svaniva rinviando tutto all'indomani. L'occhio vaga nel dipinto di luce in luce, pago, felice. Una miriade di velluti verdi raccontano i mille bianchi , i rosa, i gialli, gli arancioni. E' la luce che racconta la gioia pazza delle forme, di lily così belli da diventare immagine sensibile che racconta la meraviglia, l'attimo più sospeso e silenzioso e assorto della meraviglia. La magia della luce che rinasce con ogni bambino e con ogni pittore che bambino non ha smesso di essere mai.



Carnation, Lily, Lily, Rose
John Singer Sargent
1885-1886 , Oil on canvas
174 x 153.8 cm
Tate Gallery, London, England

 

Venerdì, 6 Ottobre 2006
Quest'inverno


Io quest'inverno ho bisogno che ci sia tante volte il sole. Freddo sì, anche gelo, neve, ghiaccio, ma luce ti prego luce, cieli spettinati come ieri che sembrava un patchwork di cartoline di nuvole d'artista, Constable a ovest, Turner a est, Magritte a sud, sopra la testa Nolde. Cieli grandi come stamattina e tersi che vedo fin là in fondo e tutt'intorno e il mondo mi sembra tanto grande.
Sarà dura quest'inverno, ma poi vedo che per un motivo o per un altro si fa tutti fatica. Per favore tieni il grigio e le nebbie in cassetti piccoli, pigiali e pigiali se non ci stanno, aprili poco quel poco che proprio serve. Fai piovere se puoi di notte, che la sentiamo sul tetto o sui vetri mentre ci addormentiamo o mentre facciamo l'amore. Apri armadi vaporosi di cieli azzurri che sembrano ritagliati nella carta, luce che entri nelle stanze come in Hopper , luce che ti dia il la e dopo uno parte e s'infiammano le cose della casa come accadeva a Bonnard, che stava a casa con Marta ma deve essere stato più bello di un viaggio ai Tropici. Facci sognare con la luce che ci serve.
Ricordo un giorno, il mio bambino ora grande era in pericolo in ospedale ed io che non sapevo più a cosa aggrapparmi; guardai fuori dalla finestra che dava su Praed Street .Il palazzo dall'altra parte della strada sembrava inzuppato in una luce di Pasqua, pareva l'incontro tra Hopper e Piero della Francesca. L'ombra dello sporto del tetto era umida di possibilità. E' durato pochi istanti, durante i quali alcuni piccioni arrivarono sul davanzale e i grigiazzurri luminosissimi del loro piumaggio nell'aria chiara sembrarono una manciata di coriandoli di luce lanciati per me che avevo aghi di gelo nel cuore.
Ancora, ancora.


Pierre Bonnard
Dining Room in the Country
1913
Oil on canvas

Lunedì, 9 Ottobre 2006
Svista

Caro Newyorker,
sarà stata di sicuro la febbre, ma quando ho letto da te se mi piace Patrick Hughes ti ho risposto pensando a Howard Hodgkin. E adesso che fare, se non parlare di entrambi?
Guarda questo dipinto qua sopra di Howard Hodgkin , cos'è se non voglia di vivere allo stato puro, ebbrezza, sensualità. Ecco, io quando sto bene il mio star bene lo vedo risaltare proprio come quell'arancio infuocato sui gioni di fatica. E quando sto male come oggi ho bisogno di guardare quel colore perché mi appartiene, è parte della mia essenza , brace che non si spegnerà. Chissà che ne pensi tu di questa pittura . Sembra pura improvvisazione veloce, ed invece necessita -lo sappiamo- di anni perché il quadro concluda la sua genesi e si possa dire finito. Dietro un'apparente semplicità ed immediatezza, sappiamo esserci un lungo tempo, necessario perché una determinata emozione si possa fissare, trovi casa dentro la tela, debordando anche sulla cornice. Per questa svista forse non casuale di stamattina, ti voglio ringraziare, Hodgkin è per me oggi una dose da cavallo di tachipirina. Anzi sai che ti dico? Esco, vado a comprar tele. E poi una passeggiata, magari breve, ma la faccio. C'è un sole fuori… Mi copro non temere.
E quando torno, provo a scrivere su Patrick Hughes. Bye bye, see you later.

Lunedì, 9 Ottobre 2006
Spazio vuoto

Penso spesso al vuoto, mi chiedo cos'è, se è vuoto per davvero. Mi capita di passare attraverso stanze, androni, scale dove sono state dette parole, o dove c'era un inciampo nella voce, o sono stati lanciati sguardi. E poi parcheggi, stazioni. I luoghi tutti della felicità, perché è quella che non ci rassegniamo a perdere. Mi sembra sempre strano non trovare strane concrezioni in alto, batuffoli di parole che si sono rappresi sopra l'armadio, o tra i rami di un pino marittimo, o sopra un'insegna pubblicitaria della stazione o un lampione vicino alla spiaggia. Questa cosa non mi lascia e ieri che abbiamo chiuso casa in montagna non smettevo di chiedermi cosa resterà qua dentro di un'estate strana ma felice , magari resta un'eco delle risa dei bambini e io non posso più sentirla, ma c'è, intrappolata qui dentro per un intero inverno fino a nuova primavera. Infinitesimale nell'aria c'è ancora il mio raccontare ed il suo , le parole dello stupore, quelle dell'amore, infinitesimale il tepore che l'aria ha preso dal nostro corpo; se è vero che Achille non prenderà mai la tartaruga, nulla forse svanisce per davvero.
Una poesia bellissima di Valerio Magrelli parla di qualcosa di simile, la so a memoria senza aver fatto mai la fatica d'impararla, tanto la sento cara:
Ho spesso immaginato che gli sguardi
sopravvivano all'atto del vedere
come fossero aste,
tragitti misurati, lance
in una battaglia.
Allora penso che dentro una stanza
appena abbandonata
simili tratti debbano restare
qualche tempo sospesi ed incrociati
nell'equilibrio del loro disegno
intatti e sovrapposti come i legni
dello shangai.
Nelle arti figurative l'opera di Rachel Whiteread, ragiona sul vuoto, sembra un lucido e insistente pensiero a ciò che resta della vita che è appena passata. I materiali della scultura, gesso resine e resine colorate, si addensano per dar forma al vuoto, catturandolo per sempre. Tra tutti amo soprattutto il calco della casa (House 1993) e il calco di alcune librerie (Untitled (Library),1999) . Documentandomi per questo post ho trovato quest'opera, Pink Torso, che scalda pensieri e riaccende ricordi.




Rachel Whiteread
Untitled (Pink Torso) 1991

Mercoledì, 11 Ottobre 2006
Nastro


Quando sono nata io mio padre attaccò alla porta di casa un nastro così lungo che arrivava sino alla Rentella, il corso d'acqua là vicino. Ogni anno per quaranta volte, con le stesse parole e la stessa intensità, mi hanno raccontato questa storia e quanto lungo era questo nastro. Io ricordo che da piccola provavo a immaginarlo e facevo fatica a pensare che ci fosse un nastro così lungo da attraversare il giardino dalla parte della strada, attraversare la strada stessa e arrivare fino alla sponda del canale. E le macchine? La gente che passava? Ma ascoltavo , affascinata , e provavo a figurarmelo.
Passarono gli anni ed io compresi che non poteva certo essere, ma continuai a lasciarli dire, godendo dell'amore che mi passavano descrivendomi questa che era come una figurina sul palmo di una mano.
Quando mio padre mancò mia madre forse sentì che sul palcoscenico di quel breve racconto mancava una figura troppo importante, e si allungò all'improvviso la parte, con una battuta semplice ma di una forza pari a quella di una fucilata (Quando che te si nasesta ti me parea de aver ciapà el mondo co na man).
L'immagine dentro la mia mente si è formata negli anni così, lentamente, come un'immagine a bassa risoluzione che nel tempo si definisce sempre più, sempre più numerosi i pixel. Adesso è nitida che neanche le più potenti macchine fotografiche possono far di meglio e più di allora so che è vero: una mattina prestissimo di un giorno di novembre di circa quattro decenni fa mio padre (e mia madre insieme a lui nelle intenzioni, aveva appena dato alla luce una bimba di quattro chili e passa avvertendo in sé la sensazione precisa e folle di aver preso il mondo in mano) sfidando il tempo bigio freddo ed inclemente attaccò alla porta della casa dove sono nata e cresciuta un nastro (rosa?) lunghissimo, lungo da attraversare il giardino, scavalcare il cancelletto, attraversare la strada comunale e arrivare sino alla Rentella lambendone le fredde acque correnti. Volteggia ancora nell'aria più per interna energia che per presenza di vento, sullo sfondo le colline amate mie.
Coi miei figli tento di fare la stessa cosa.


Bond of Union
by M. C. Escher

Giovedì, 12 Ottobre 2006
Immagine del confine (partire)


Un post molto bello di Rapida di ieri mi ha rituffata dentro ricordi oramai quasi lontani.E penso sia stato questo pensiero della perfida Albione insieme alla bellissima canzone che ho scaricato da Baskerville e che ascolto anche ora mentre scrivo (ha dentro il ritmo e l'idea del viaggio e della felicità possibile) a riportarmi alla mente l'immagine di quando lasciai l'Italia pensando che fosse per sempre. Decido ora di chiamarla l'immagine del confine.
Partimmo felici e la felicità era una acuminata sensazione stordente che ci colse soprattutto quando arrivò il buio. La luce dorata del tardo pomeriggio ci aveva consentito di finire di caricare l'auto: vestiti, libri, e vino in ogni possibile anfratto , una cosa come cinquanta bottiglie di vino di ottima qualità, così avevamo deciso di ringraziare quell'amico che lassù ci stava aspettando e che ci avrebbe ospitato i primi tempi. Un piccolo ritratto di Proust ed un piccolo ritratto che feci a mio padre. Materiali per disegnare. Una cartella di miei lavori. Il puimino d'oca a due piazze. Non ricordo altro. Salutare fu naturalmente difficile, ma era come se un'enorme fionda ci avesse da giorni già lanciati, si trattava di portare velocemente i nostri corpi dove erano già i nostri
pensieri. Io penso davvero che se qualcuno mi avesse a quel tempo guardato attentamente, avrebbe visto che in fronte avevo scritto: "Sradicare gli altri è il peggiore dei crimini, sradicare se stessi la massima conquista". Firmato Peter Handke . Dovevo andare. Normaton in movimento è da sempre. Il buio fitto ci avvolse mano a mano che ci avvicinavamo al confine, abbracciandoci quando valicammo le Alpi. Nel silenzio della notte, le luci arancioni e bianche del viaggiare risaltavano sui blu e sui neri che sono di casa nei più bei notturni di Munch.


Alejandro Quincoces
El puente (NY), 2006

C'era una luna in cielo che era pura meraviglia e quella cometa che solcò i cieli nell'agosto del 1996 fu davanti a noi tutto il tempo in un cielo tempestato di stelle. Era persino troppo, tutto insieme così, e mi colsero emozioni così forti come forse solo i bambini hanno. Le Alpi chiarissime nel blu mi sembravano bianchi ed immensi giganti che mi guardavano, ci guardavano, mentre correvamo incontro al nostro futuro. Sembravano dire di sì a quella corsa. Rivedo la scena dall'alto ogni volta che ci penso, la piccola macchinina bianca pigiata di cose che corre veloce nel blu, bozzolo di desideri sparato dentro un buio rigato di luci . Baskerville ieri è riuscito a trovare la colonna sonora anche per questa emozione (Over the rainbow/What a wonderful word).

Sabato, 14 Ottobre 2006
It rains cats and dogs

Luca Ravagnan, Pioggia battente
Ecco perchè torno sempre qua a girare tra i blog, mi fanno sentire quel buzz della grande città che a tratti mi manca e sul quale sto cercando da ieri di scrivere un post che finirà probabilmente nel cestino. E' come girare per vie immaginarie e oltre a incontrare tante persone diverse, ogni tanto sbucano musicisti in strada, Billie Holiday e The Penguin Cafe Orchestra stamattina.Tu ascolti mentre fai colazione o lavi le tazze, poi torni al computer ed entri in una piccola galleria di fotografia.C'è chi scende dalla metro e ti lascia il suo giornale con un sorriso Legga qua, che schifo, ma è possibile?
Io forse un giorno di questi smetto, sto perdendo colpi, ma non smetterò certo di leggervi.
La foto che ha pubblicato Baskerville or ora è molto bella, vado a vedere di chi è e scopro un fotografo molto bravo che proprio non conoscevo, Luca Ravagnan. Guardo una decina di immagini e trovo questa che mi lascia senza parole (naturalmente vorrei essere il tavolino in questo istante). Idea della pioggia battente che entra nella mia giornata.

 

Domenica, 15 Ottobre 2006

Il primo ricordo è quello di fragole rubate nei campi là vicino con bambini della mia età, avevamo paura che ci sparassero sale per farci scappare, o forse era solo una leggenda ; di sicuro fragole così buone non le ho mangiate più.
Mio padre mi raccontava che quando era piccolo usavano delle lunghissime scale per raccoglierne i fiori che si utilizzavano per ricavare le essenze profumate.
Adolescente, conobbi un pittore che veniva da Livorno e dipinse lì un'intera estate. Io lavoravo in fabbrica per poter iniziare a studiare alle superiori e quando passavo mi fermavo sempre a guardarlo dipingere.
Negli anni Ottanta ci portavo mio nipote quasi ogni giorno sul sellino in bicicletta; giù in fondo sulla destra -sempre lo stesso identico punto- ci facevamo le foto con l'autoscatto ridendo a crepapelle, mangiavamo biscotti profumati comprati poco prima al panificio del paese, guardavamo incantati le stagioni passare attraverso le chiome intrecciate degli alberi.
L'ho immaginato mille volte dall'alto, disegnandolo a memoria come un volto amato. Quando ero lontana, immaginarlo era uno dei pochi metodi certi per placarmi.
L'ho disegnato anche dal vero, incisioni soprattutto . Un'estate coltivarono i campi sulla sinistra a grano, e quando fu maturo agli inizi di giugno nacque una mia serie di pastelli dalla quale mi separai quasi subito per barattarla con nuovi colori e tele. Mi chiedo talvolta se erano belli come mi parvero a quel tempo, il giallo e il rosso del campo di grano e pochi papaveri in fondo brillavano tra le quinte e le fronde scure dei tigli.
C'ho portato le mie classi a disegnare, bene così non li ho visti forse mai, seduti a gruppi o da soli, ognuno, chi in silenzio chi parlando piano, disegnava il suo albero o, audacissimo, l'intero viale.
I miei figli, Normaton, i miei amici lo amano come me.
L'ho fotografato un giorno dello scorso inverno, c'era una tempesta strana di neve nell'aria, che spolverò gli alberi come se fosse farina; nacquero queste immagini belle e suggestive , il caso volle che a scattarle fossi io.

Qualche mese fa questo viale di tigli fu colpito con insistenza da una tromba d'aria, numerosi gli alberi secolari divelti, martoriati gli altri. Non si poteva percorrerlo tante erano le piante e le fronde cadute. La gente del paese accorreva, ed io immagino che ciascuno radunasse nella sua mente i suoi ricordi come ho fatto io qui ora.
Non ho parole per quel che vidi, per quel che tutti vedemmo, il verticale ed imponente all'improvviso orizzontale, muto , inerme ( quelli caduti li ho accarezzati, ne sentivo il calore e mi sembrava di sentirne nell'aria la presenza viva). Ciò che era orizzontale, d'improvviso era verticale, e cioè la terra, sollevatasi con il ceppo, zolle enormi, meduse di radici contorte ogni giorno più secche.
Trascrivo parte di una bellissima poesia di Andrea Zanzotto , il grande poeta che in questi giorni ha compiuto ottantacinque anni, sul tema della morte degli alberi.
"La quercia sradicata dal vento nella notte del 15 ottobre MCMLVIII"
(…)
Ti rinvenimmo
attraverso la squallida bocca del giorno,
rovesciata. Nel basso,
empito umbrifero, plurimo,
di calme e aromi che ti spiegavi fin là,
sino alla fonte mai vista del fiume
sino all'infanzia fantastica balbettante degli avi.
Ai nostri abietti piedi
tu ch'eri la vetta cui corre
l'occhio e il tempo al riposo.
E ora il sole allarga aride ali
sul paese svuotato di te.
……………………………………….
Quercia, come la messe
d'embrici e vetri, la dispersione
per selciati ed asfalti
- nostre irrite grida, irriti aneliti -,
quercia umiliata ai piedi
miei, di me inginocchiato
invano a alzarti come si alza il padre
colpito, invano
prostrato ad ascoltare
in te nostri in te antichissimi
irriti aneliti, irriti gridi.



Viale

 

Lunedì, 16 Ottobre 2006
Corsa


E' un quadro piccolo ma è un grande quadro. Una gouche di trenta centimetri per quaranta o qualcosa di simile ma a me sembra molto, molto più grande; non tanto non solo per lo spazio che vi è rappresentato ma per quello che si immagina a destra, a sinistra, in alto. Vi sono rappresentate due donne al mare, non vediamo da dove arrivano e non sappiamo verso cosa corrono. Stanno giocando a fazzoletto? C'è una farfalla che vola via e che vogliono prendere? L'uomo che entrambe amano? O uno ciascuno proprio quello che vogliono? Una terza amica? Un aereo di carta? Un unicorno? Bambini che corrono anch'essi? Forse corrono e basta e quella più avanti tende il braccio per il piacere fisico di allungare i muscoli misurando lo spazio e fendendo l'aria, quella più indietro semplicemente gode del buttare indietro il capo e si affida all'amica che la guida. Vale comunque la pena, sì, restare sospesi nell'aria leggera, vale la pena godersi la corsa, senza pensare alla meta, come ci ricordava persino Jeremy Iron in pubblicità.
In questo dipinto amo gli opposti, amo queste donne leggere e pesanti, angeli sensualissimi di carne, amo i colori scuri e chiari che stanno vicini come amici, vicini come amici il caldo e il freddo. Gli elementi tutti presenti , la terra l'aria l'acqua e il fuoco nei cuori.
Cos'è questa corsa folle e felice se non la vita, questo presente che ha il fiatone e che vorremmo rovinasse addosso ad un futuro d'amore e spensieratezza.


Pablo Picasso
Due donne che corrono sulla spiaggia
1922
Parigi, Musée Picasso

Martedì, 17 Ottobre 2006
Vasarely
Nel mare della percezione ci fa navigare benissimo. E' un gioco, un bellissimo gioco di testa, colorato ad arte e senza sbavature. Il mondo è un posto sicuro, anche se la stranezza è in agguato, l'incerto, il doppio senso, il polisenso, poi tutto alla fine si fa comprendere, si fa disegnare. Mi piace da sempre. I ragazzi restano a bocca aperta, io glielo racconto ogni anno, di solito quando insegno loro a disegnare linee che non si mettano in testa di essere altro che linee. E linee che imparano a navigare, il muoversi dell'onda, quello del vento . Meraviglia geometrica, si muovono i pensieri a guardare le sue opere che si muovono. Idea della leggerezza e dell'esattezza.(Thanks NY)



Victor Vasarely, Ambigu-B, 1970
paper, tempera.

Mercoledì, 18 Ottobre 2006
Mio padre a pranzo

Verso le dieci mi è presa un'eccitazione simile a quella che precede un incontro d'amore. Ho scelto lo scalogno più bello , l'ho spogliato ascoltandone il crepitare e tagliato finemente . L'ho messo nell'olio e l'ho lasciato struggere a fuoco molto basso, mescolando di tanto in tanto. Ho tagliato lo speck a pezzetti e l'ho messo a struggersi insieme alla cipolla. La tovaglia più bella, quella rossa, faceva l'occhiolino al pastello al quale sto lavorando e che se ne sta là in fondo appoggiato sopra il comò.I piatti dalla Spagna, bicchieri di cristallo disuguali per sdrammatizzare , tovaglioli di carta blu perché sarà informale. Aggiungo il pomodoro , peperoncino, fuoco un po' vivace. Metto musica, ascolto quella che mi ha passato Rapida stamattina mentre sto ferma un po' sulla soglia di casa e sento l'emozione trapassarmi da capo a piedi (adoro il pianoforte) ; guardo la luce sotto il portico, mi accarezzo il braccio e sento che sotto la maglia ho ancora il cerotto del prelievo di stamattina (la donna imperfetta). Lo tolgo, smonto un percorso ferroviario con tanto di ponte e stazione ferroviaria sopra il tappeto persiano grigio e blu. Assaggio ed aggiungo peperoncino, fuoco più basso. Preparo formaggi e salumi, ho comprato molto pane forse troppo lo dispongo per bene sul tavolo. Assaggio ed aggiungo peperoncino, basta così. Metto l'acqua a bollire, la panna nel sugo. Adesso birra sul tavolo, uva là in fondo, le melanzane sott'olio che ha preparato mia madre. Squilla il telefono, butto la pasta. Finalmente arrivano, mezzogiorno e mezzo. I muratori e Normaton.
Si scusano di essere sporchi e impolverati, hanno sorrisi e sguardi che sarebbero da incartare e congelare per la stagione invernale (anche mio padre faceva così). Normaton li accompagna a lavarsi le mani, si muovono un po' impacciati per casa, ma si vede che sono molto felici che io li abbia invitati . Servo porzioni abbondanti. Mangiamo la pasta alla bubu e con calma tutto il resto, senza fretta , parlando e ridendo.
Scopro che uno dei muratori è stato due volte due in India da solo, mi faccio raccontare. Di sicuro mio padre avrà raccontato dei suoi anni in Argentina quando lo invitavano a fermarsi per pranzo . Ascolto, chiedo ancora e nella mia mente il suo raccontare si intreccia al ricordo dei racconti di mio padre (l'oceano da attraversare, la gente, i cibi, la lingua spagnola che gli inumidiva sempre gli occhi).
Sto bene, sento che i suoi racconti mi abbracciano ancora saltando a piè pari il lungo tempo che è andato. Ho una sedia vuota alla mia destra, là siede mio padre e racconta anche lui di quella volta che partì…; racconta prima di riprendere il lavoro di calce e mattoni.



Pierre Bonnard 1912-15
Carafe, Marthe Bonnard with Her Dog
oil on canvas. Private collection.

 

Giovedì, 19 Ottobre 2006
Seconda terapia (post posticcio che poi cancello)
prenderò la borsa blu quella che usavo per la scuola, ci metterò dentro due matite una per sottolineare e una per disegnare, un quaderno, le elegie duinesi , il requiem, canzoni salvate a casa di bask e rapida. mi porto un po' di soldi che devo comprare il biglietto del treno, entrare a veder mantenga la madonna della tenerezza, comprarmi una maglia blu parigi che ho provato da coin la scorsa settimana e costa non poco ma ho deciso che me la merito punto e basta. il telefonino , l'ipod. una mela imperatore che mi piacciono proprio tanto. gomme per stroncare la nausea sul nascere. basta così, non devo caricarmi la spalla


Venerdì, 20 Ottobre 2006
Il mare, domani (piccola storia colorata)

Da bambina ero sonnambula, di notte cambiavo stanza senza accorgermene, mi addormentavo nella mia stanza per risvegliarmi in quella dei miei fratelli o dei miei genitori. Giravo per casa e parlavo nel sonno. Non sempre, ogni tanto. Non accadde mai nulla di eclatante se non un fatto una sera sul finire degli anni Sessanta .
Ero una bimbetta, in vacanza dai miei zii. Non avevo mai visto il mare ma ci sarei andata l'indomani con mia zia e i miei cugini , ricordo la penombra della stanza nella quale lei finiva di preparare i bagagli credendo che noi dormissimo. Io ero eccitatissima. Il mare, domani.
Il racconto divertito l'ho sentito tante volte da mia zia, quasi sempre nelle feste di famiglia: mi fermò appena in tempo sulla soglia di casa, stavo uscendo in piena notte, in pigiama, il costume in una mano le ciabattine nell'altra. Evidentemente volevo andare al mare prima di domani.
Pensandoci ora l'alone di mistero nel quale è ancora avvolto ai miei occhi questo breve fatto non è solo la particolare condizione del sonnambulo , fragile creatura che si espone al pericolo per seguire un sogno, ma la domanda che in fondo mi è sempre rimasta dentro : Che sarebbe accaduto se mia zia non mi avesse fermato? Dove sarei arrivata? Al mare? E cosa avrei provato svegliandomi nel puro blu della notte?
E' un po' il brivido dell'ignoto, del lontano, che mi ha sempre punzecchiata fin da piccola; perdersi, trovarsi da soli dove non si sa. Quando mia madre mi diceva di non uscire col buio a prendere le lucciole, perché c'erano gli zingari accampati là vicino e secondo lei mi potevano portar via, io a volte obbedivo a volte no; di sicuro a lungo dalla finestra guardando i blu della sera provavo a figurarmi come sarebbe stato, vivere con gli zingari e andare distante, altrove. Amavo sentire quel brivido guizzare tra i miei pensieri.
Cos'ha di colorato questa storia? Il mio due pezzi di bambina, a palloncini gialli rossi e blu.

 



Sabato, 21 Ottobre 2006
Si vede quel che si sa
Una mattina di circa dodici anni fa stavo cucinando e per concludere la mia ricetta (risotto ai funghi?) mi serviva un po' di prezzemolo. Un caro conoscente era a casa con me ed io gli dissi, indicando col dito Vai, vai a prendermi un po' di prezzemolo là nell'orto per favore. Partì seguendo esattamente la traiettoria suggerita dal mio indice. Giuro che era una persona normale. Partì con il suo passo deciso ed un po' goffo senza accelerazioni o esitazioni di sorta e quando arrivò nei pressi dell'aiuola continuò come se nulla fosse calpestando letteralmente prezzemolo e crescione senza rendersene conto per proseguire in direzione dei noccioli in fondo al giardino perché lì nella sua mente doveva essere il prezzemolo. Io subito rimasi senza parole, poi ripescai il mio amico in fondo al giardino, lo portai vicino all'aiuola e spiegai : "Mario, questo è il prezzemolo come appare quando lo coltivi tu, questo il crescione, so che si può usare per delle minestre, per ora non le so fare, intanto è bello da guardare".
Si vede quel che si conosce. Mario non conosceva il prezzemolo e neanche il crescione.
Ieri ripensavo ai pittori inglesi contemporanei. Ha ragione NY, quelli che lavorano nel campo della figurazione sono forse più forti rispetto agli astratti, diventano quasi essi stessi lo stile di un luogo. Basti pensare a Bacon e a Freud, per citare i più celebri. Tra questi c'è un pittore che ho imparato ad apprezzare nel tempo, Franz Auerbach. Me ne parlarono quasi subito quando iniziai a vivere lassù, ne vedevo le opere riprodotte nelle riviste d'arte , sbucavano nelle gallerie e alla Tate. Ma io non le capivo, comprendevo che era buona pittura ma onestamente c'era qualcosa che mi impediva di goderne per davvero. Non fosse che l'arte è la mia passione, avrei fatto come Mario col prezzemolo, e mi sarei defilata dal vedere una pittura che trovavo ostica. Io lo so che a volte solo il tempo fa accadere quel che ci occorre, il tempo che ci diamo per capire vivendo.
Riguardo in queste ore le stesse opere e ringrazio il cielo che ci sia un pittore che ha tessuto trame di pennellate e colori che mi restituiscono , anche se riprodotti su un monitor di computer, la colorata fatica del vivere in una grande città.
Ora che vivo in campagna mi manca un po' la città, è un classico, un'amica che ha fatto la mia stessa inversione di marcia un anno due prima di me mi aveva avvertito Non ti pentirai, ma vedrai che presto di Londra ti mancherà il buzz .
Eccolo qua , un altro sentimento all'appello, nostalgia del buzz. Nostalgia di un posto dove si incrociano a velocità incessante così tanti sguardi, così tante vite. Certo, spesso sole, ma incartate in una libertà d'esistere ed essere della quale ricordo con emozionei lo splendore e i bagliori .Cieli lattiginosi , resistere della luce , straordinari impasti di colore e vita che ritrovo nei lavori bellissimi di Auerbach.



Franz Auerbach
To the Studios
1982, oil on board

 

Lunedì, 23 Ottobre 2006
SaettaMcQueen e Peter
Me ne sono accorta ieri pomeriggio mentre lavavo le tazze e qualche bicchiere. Come cerco sempre di fare da quando me lo consigliò distrattamente la mia amica dan, tentavo di concentrarmi sul piacere dell'acqua (calda fredda calda fredda giusta) che ti scorre sulle mani, poi la schiuma. Mi sono girata a guardarli come un feudatario guarda i suoi feudi (tutto a posto, là?) . Il più grande approfondiva le sue impressionanti conoscenze geografiche , il piccolo , pericolosamente in piedi sulla sedia, concentrato e assorto, brandendo il pennello allungava in avanti il braccio per intingere il pennello nel nero e di nero colorare tutto il tronco dell'albero.
E' strano amare il nero, non aver indossato altro colore per oltre un decennio e sceglierlo ancora spesso, studiarlo, raccontarlo (perché si provi a raccontare la storia dell'arte senza nero…), dipingerlo, incrociar segni fino ad acchiapparlo, e poi sentire un dolore d'ago nel cuore quando tuo figlio lo sceglie per colorare l'albero. Lui , che fino a ieri l'altro gli potevi chiedere qualsiasi cosa e ti rispondeva rosso.( Che cosa ti è successo? Perché mi sgami sempre, come fai? Cosa c'è nell'aria che tu lo senti, lo avverti? Adesso prendo e ballo e faccio una piroetta in mezzo alla stanza così vedi che bene che sto, lo vedete tutti e due…). Non resisto gli chiedo Perché il tronco dell'albero è nero? Perché è bello ( ed io sto zitta, non posso certo dirgli che è brutto, o che il tronco è marrone).
La casa è di un bel rosso ma una pennellata incerta o maldestra l'ha striata in alto di un grigio antracite scuro, la chioma dell'albero è di un verde cinabro bellissimo, l'esile luna è blu oltremare, accanto il sole giallo spande raggi a destra e a sinistra. E' quel tronco d'albero che mi dà pensiero (devo guarire).
Lo chiamo al computer con me Adottiamo degli animali dài. Io voglio un pesce rosso- dico- guarda che bello, come lo chiamiamo? SaettaMcQueen- risponde ridendo. Tu? E sceglie la tartaruga, la chiama Peter e la vuole blu come il cielo. (sono giù giù, a destra e a sinistra, giocateci quanto volete, noi lo faremo alle quattro e mezza ogni pomeriggio quando G. rientra dall'asilo).

 

Lunedì, 23 Ottobre 2006
Poltrona rossa (acqua e menta)


Stasera mi sembra di veder me stessa, in questo dipinto di Picasso.
Era quando frequentavo il cineforum di A. Era estate, sere profumate dei trent'anni, proiezione all'aperto nel chiostro di un convento. La magia del cinema immutata negli anni. Schermo grande e sopra la rocca bianchissima in lontananza.
Finita la proiezione scendevamo giù per la stradina ed entravamo a casa di Gianna. Ci preparava l'acqua e menta , decantando a lungo l'essenza che usava. Noi aspettavamo in silenzio nella stanza in penombra che si affacciava sulla piazza quadrata circondata dagli ippocastani. Avevamo ancora il film negli occhi e poca voglia di parlare. Bello lasciarsi abbracciare dalle poltrone. Dalle poltrone e dall'incipiente notte.
Lei arrivava, con i bicchieri d'acqua e noi iniziavamo a bere, parlando di tanto in tanto. Ricordo che cercavo di concentrarmi al massimo perché faticavo a sentire questa mirabolante essenza di menta, ma alla fine addestrai me stessa ed iniziai a sentirla, appena appena.
Capitò almeno due volte, uscendo di casa ci si diceva Ma secondo te, questa menta com'è? Metafisica e si rideva perché conoscendo Gianna c'era un forte sospetto che potesse aver dimenticato di metterla nell'acqua.
Ma ci piacque lasciare la cosa nel vago, tanto cosa cambiava. Si stava così bene .
Quando la terza volta il gusto della menta si fece sentire subito, fu una strana sensazione, era piacevole da bere ma deludente, quasi banale. Ci mancò quel percorso strano fatto di niente, delle parole di Gianna che si mutavano in omeopatica memoria della menta nell'acqua.
Stasera in questa immagine mi godo il ricordo dell'acqua e menta di Gianna e di quanto imparai sorseggiandola piano.


Pablo Picasso, The dream

Martedì, 24 Ottobre 2006
A brand new dream

Pablo Picasso, The dream
Ho un sogno recentissimo , non semplice ma realizzabile. Un po' pericoloso, ma cos'è che non lo è.
L'ho pensato per la prima volta a settembre, e poi stamattina.
Lavori in corso in strada, devono rifare l'asfalto e prima di farlo grattano la superficie stradale con non so che macchina. Il risultato è stupefacente ( lo so che non sono normale) tutta la strada rigata, di tanti grigi e neri-blu abissali (con la pioggia fa ancora più effetto). Sono zigrinature profonde, slabbrate, bellissime, regolari nella direzione ma con improvvisi scarti di linee curve dal parallelismo orizzontale dominante. Viene voglia di scendere dalla macchina e andare a toccarle, ma l'omino con la paletta verde mi fa andare e non voglio essere d'inciampo. Quando ci vado sopra con l'auto è ancora più sorprendente, quasi mi commuovo, chissà che corde mi tocca dentro questo mare e il rumore delle ruote della mia auto che lo naviga, lo naviga e vibra.
Il sogno è quello di tornare là di notte, sperando che non ci sia nessuno; prendere un foglio grandissimo, metti carta da scenografia, appoggiarlo sulla strada e fare un enorme frottage usando ad arte diversi strumenti grafici (carboncino e matite di diversa durezza). Poi tirare su e attaccarlo alla parete in studio, notturna cascata di segni regolari ma liberi, segni neri e bianchi risparmiati, infinite vibrazioni di grigi. Potrei così permettere in un mio nuovo lavoro a quel che sembra scontato di diventare imponente e raccontare, a volte basta capovolgere le cose, che l'orizzontale diventi verticale ed è tutta un'altra storia. Diventerebbe lo sfondo bellissimo per dei lavori sulla figura o forse addirittura dei grandi ritratti. O forse una storia ce la fa a raccontarla da solo.
Se non piove forse stanotte stessa, che mi sa che domani riasfaltano e intrappolano il disegno sotto.

Mercoledì, 25 Ottobre 2006
Bambine
Sono andata a fare il frottage ieri sera, mi sentivo gli occhi addosso di tutti quelli che entravano nel blog dalla hp di Repubblica. Belli i commenti, bellissima la sensazione di riuscire a comunicare qualcosa. Ho pensato Adesso mi tocca…. Ma prima ho misurato le mie forze. Con i leucociti che ho, non posso di sicuro fare una cosa più grande di me , e allora ho deciso di iniziare intanto, di fare tanti piccoli frottage che poi magari metto insieme come ho visto fare a Kiefer con le xilografie. Spesso le idee nascono ma poi bisogna lasciarle crescere piano, annaffiandole giorno dopo giorno.
Quindi ho preso fogli di media dimensione e una scatolina vuota di toscani piena ricolma di carboncino e grafite.
Erano le otto passate, buio pesto e son partita. Normaton mi ha detto Sta attenta alle macchine. Non ti preoccupare, mi porto mia madre a fare il vigile.
Sono andata a casa sua, avevamo anche discorsi da continuare.
Vieni con me in strada là fuori vicino alla piazza che devo disegnare ?
Disegnare dove? mi ha detto mettendosi il cappotto.
E' bello ricordare tutte le cose che mi ha dato lei, bottiglia piena che non ha potuto che versare e versare e versare negli anni, ma altrettanto emozionante è capire che anche io qualcosa le ho passato. Non mi ha chiesto spiegazioni, siamo partite a braccetto in una sera non fredda e ricolma di un silenzio ovattato . Arrivate vicino alla piazza del paese ho iniziato a disegnare per terra sull'asfalto zigrinato, lei guardava come se fosse la cosa più naturale del mondo, la gente che passava rallentava e guardava incredula, lei si preoccupava solo di avvertirmi delle macchine che sarebbero passate dalla mia parte. Mi passava i fogli, metteva uno sopra l'altro quelli conclusi. Ha anche espresso il suo giudizio Guarda che bello questo, perché non l'hai fatto rosso?
Settantun anni, ieri sera bambina insieme a me.

Giovedì, 26 Ottobre 2006
Fiori

Se c'è una cosa buona che ho io, è che ogni volta che ho una relazione nuova (d'amore, d'amicizia) imparo un sacco di cose e torno a casa con la saccoccia piena.
Una volta lo dissi ad un mio diciamo amico, se tu piuttosto di essere ciò che sei fossi stato un aviatore, io piuttosto di imparare da te quel che ho imparato avrei imparato a volare.
E' una bella cosa; superata la prima fase nella quale studio con la lente d'ingrandimento il soggetto in questione, quasi dimentica di me stessa, segue una seconda fase- sublime- dove io sono io più quel che di nuovo ho imparato.
Detto questo, la mia amica K. mi ha insegnato ad amare i fiori. Negli anni, senza fretta. Con le parole ma anche senza. Dai più umili ai più rari, da quelli che ti urlano guardami a quelli che ti sussurrano chinati se mi vuoi veder meglio. Ne amo il profumo, mi sconvolgono i colori, mi disarma toccarne i petali, mi eccitano le forme. Amo dipingerli ma più ancora amo vedere come i grandi artisti li hanno interpretati.
Questo dipinto di da sempre mi muove dentro cose che non so ancora capire. Dev'essere l'idea forte della passione che mi interessa, il contrasto tra l'urlo del colore e l'incombente temporale, la dolcezza e il pericolo in un'atmosfera sospesa . Il fiore in primo piano mi sembra quasi eversivo, resistere e imporsi della bellezza. C'è un temporale di pece là in fondo?-sembra dire il fiore grande come un albero. E allora? Guarda me, guarda me e guarda il rosso.


Emil Nolde

 

Venerdì, 27 Ottobre 2006
Parigi

La prima volta che arrivai in quell'appartamento era appena passato Natale, dodici, tredici anni fa. Ero partita quasi intimorita, non era il primo viaggio all'estero, ma era la prima volta da sola. Avrei trovato le chiavi da Lauren, il ragazzo che lavorava nella panetteria sotto casa e che viveva al piano di sopra. Per Angela la cosa più naturale del mondo, per me, e non conoscevo allora nessuna lingua straniera, era appena sotto la soglia del panico. Fu alla fine semplice come bere un bicchier d'acqua, erano in tre al banco del panificio pasticceria, e sembrava che se ne stessero lì, ad aspettare me per darmi le chiavi.
E' bello conoscere qualcuno vivendo per un pò nella casa lasciata vuota, per me era come una conferma,di aver scelto bene iniziando ad approfondire un rapporto d'amicizia con lei. Tutti quei libri dappertutto, il senso del bello nella scelta delle cose, anche le più semplici, il giusto grado di ordine. Ricordo la riproduzione di un bellissimo nudo di donna di Matisse in bagno, quei suoi disegni fatti di niente. Percepii subito una certa sensualità nello spazio, nella luce che proveniva dalle grandi finestre ed entrava dalla città .Fu in quella situazione che imparai a convivere con la stranezza di avere il water in un piccolo bagno , il lavello e la vasca da bagno nell'altra (e il bidet?).Di lì a qualche anno mi doveva tornar utile.
La prima notte non dormii quasi per nulla, alcuni ragazzi facevano chiasso felicemente in una strana giostra sotto casa. Nevicò, e sembrava cadere apposta quella neve per aumentare il senso di magia che la mia anima ama. Mi sentivo una bambina felice. Non prendere sonno dall'eccitazione è tra le gioie più grandi.
Il giorno dopo iniziai a tuffarmi nella città .Il fortissimo profumo di pane che si sentiva sempre uscendo di casa e scendendo le bellissime scale di legno di quel palazzo resterà per sempre per me legato all'idea di Parigi. Provai emozioni fortissime al Louvre, al Museo Picasso, al museo Rodin ( vicino all'ingresso scivolai sul ghiaccio e caddi a terra ridendo).
Avrei voluto rimanere in quella città per sempre, mi piaceva pensarlo, girando ovunque per vedere e capire meglio. Pensavo ad Angela che aveva lasciato il suo piccolo paese ed ora curava una collana di una importante casa editrice. Pensavo con ammirazione al coraggio che doveva aver avuto i primi tempi, e alla determinazione. Il suo appartamento, là in alto in Rue de ……., mi sembrava simbolo di una dimensione estetica, ed umana, ed esistenziale raggiunta.
Angela tornò dopo qualche giorno dal suo viaggio, parlammo a lungo, mi portò in giro a vedere le cose che nelle guide non ci sono e , ora ricordo, mi portò anche a vedere il luogo nel quale inizia Ultimo tango a Parigi. Sapendo o intuendo quanto quel film mi segnò, gli spazi vuoti dell'appartamento, il non nominarsi, il non nominare (…).


Henry Matisse
Notre-Dame , 1900 circa
Oil on canvas

Domenica, 29 Ottobre 2006
Red
La valigia è rossa, né grande né piccola (neanche una figurina su google bella come lei è, ho provato anche a trascinarla sul prato fuori casa e a fotografarla ma neanche questo mi è andato bene, no image available). E' piena piena, se si mettono insieme le cose materiali e quelle immateriali che c'ho messo dentro. Anche dei post da finire perché ho proprio bisogno di ricaricarmi. Due tre giorni, non di più. Poi torno.