Martedì, 2 Gennaio 2007
Mario Giacomelli

Sono celebri i suoi preti sulla neve. Io ho conosciuto le sue fotografie sul finire degli anni Ottanta. Un’amica artista che mi conosceva bene e sapeva della mia passione per le visioni dall’alto me ne parlò e mi prestò un suo catalogo. Sere senza parole chiusa in soffitta a guardare quelle immagini. La terra solcata di linee. Immagini drammatiche ed altre evocative. La terra è la terra ma è anche altro, superficie dell’anima rigata dalla vita, segnata dai trambusti, gli sberleffi, cambi di direzioni, percorsi paralleli. Grumi d’ombra, luci che vanno e tornano. Qualche tempo fa ho scoperto per caso che esiste un sito sull’opera di Mario Giacomelli e lo voglio segnalare. Io sono ammutolita di fronte alla bellezza delle sue immagini, dal celebre ciclo Io non ho mani che mi accarezzino il volto ad altri che non conoscevo come Lourdes, ai numerosi paesaggi e ritratti. Poi devo dire non mi potrà mai uscire di mente quella sua poesia della homepage in cui la morte muore.

SE VIVESSI ALMENO UN GIORNO,
SE POTESSI VIVERE,
SE IO VIVO,
NON SAPRÒ MAI SE ERA VERO
CHIUDERÒ GLI OCCHI
E MI VEDRANNO MORIRE,
NON CI SARÀ NÉ PRIMA NÉ DOPO,
LASCERÒ LA MIA PORZIONE
IN UN CHIUSO GIARDINO DI SOGNI
E IN TUTTI I POSTI,
IN TUTTE LE VIE,
STARANNO A RACCONTARE
IL ROVESCIO DELLA MIA VITA
DOVE MUORE LA MORTE

NON SAPRANNO MAI SE ERA VERO.
MARIO GIACOMELLI

 

 

Mercoledì, 3 Gennaio 2007
Cartoline in mano alla gente

A volte mi viene voglia di riprendere . Conservo ancora l’agenda dove mi segnavo meticolosamente tutti i luoghi. Potrei continuare un discorso vecchio, o con quel po’ di saggezza che si ha a quarant’anni, continuare senza annotarmi niente, che tanto lo scopo era un altro. Era un’idea bellissima che accarezzavo la sera addormentandomi nel mio sottotetto di ragazza. Sarà stata la musica della pioggia che cadeva sul tetto, penso ora, a suggerirmi di far piovere addosso alla gente le mie cartoline-incisione. Mettere l’arte in mano alla gente, arte con la a piccola o grande che importa, e in mano ai postini, figure che mi sono sempre piaciute molto. Avevo poco più di vent’anni e avevo appena scoperto che sapevo fare delle belle acqueforti, avevo una punta che mi correva via come in sogno. Tagliai tante lastre delle dimensioni delle cartoline ed iniziai. Erano paesaggi soprattutto, qualche ritratto. Di notte col mio torchio a stella facevo piccole tirature numerate. Poi spedivo ai miei amici , ma anche a sconosciuti (amici e conoscenti di amici) che abitavano dove mi serviva si chiudesse l’arco di un mio abbraccio ideale. Sì, perché m’immaginavo l’arco che ogni acquaforte avrebbero percorso nello spazio e che la somma di tutti questi archi mi avrebbe consentito idealmente di abbracciare il mondo. Ne spedii centinaia. Alcune le ho riviste, incorniciate in casa di amici, le altre chissà. Era bellissimo, com’è bella l’utopia ed essere liberi.

 

Venerdì, 5 Gennaio 2007
Il lieve scorrere della tua pioggia
J
C’è una pallina che da un anno e forse più ha trovato casa sotto il sedile di guida della picasso. Una pallina blu e bianca, parte di un gioco dei bambini quando erano davvero ancora bambini. Una pallina con tanto di faccia che ride, emoticon antelitteram. E’ una di quelle che fanno rumore e contiene granelli di plastica o non so che. Le varie rotaie del sedile le impediscono di uscire e lei sta là sotto. La sento rotolare guidando, non sempre, solo ogni tanto e a volte mi chiedo perché visto che lei è sempre lì. Ogni volta che pulisco l’auto e riporto in casa la schiera di macchinine e libri che vorrebbero cercare fortuna per il mondo pieno di insidie , la rivedo e non so rinunciare al lieve scorrere della sua pioggia. No, te stai lì. Lei ride e ne sembra felice. Anche oggi, vista e lasciata lì. Mi ricorda altre cose che sento ma che mi fermo ad ascoltare poco. Per esempio il rumore della colazione la mattina, quello dell’ asfalto bagnato, il silenzio di quando la neve è appena caduta, il frigorifero quando smette, il respiro dei miei cari nella notte ed il mio di respiro quando provo a mettere ordine nei miei pensieri, le parole vere di mia madre tra un brontolio dei settant’anni e una paura dei settantadue, gli uccelli dentro gli alberi, lo scoppiettare del fuoco, il vento quando cade, i passi di chi mi cammina accanto, il motorino del postino che arriva, un aereo lassù che si sente appena e va, il rumore diverso della suoneria del cellulare quando mi cerca chi mi vuole bene, il battito nuovo del mio cuore.

 

 

Sabato, 6 Gennaio 2007
Al momento non è in casa

La morte di mio padre arrivò un giorno di ottobre , troppi anni fa. All’inizio il più spaurito sembrava il medico, che ci disse con gli occhi fuori della testa, Ma non vorrete mica farlo morire qui…Ma siete sicuri? Noi eravamo sicuri e non riesco a pensare a una sua morte diversa, senza quella decina di giorni che ci servì per salutarlo, per prepararci, per dire quel che dovevamo dirci. E dircelo lì, in quell’arca che lui, silenziosa creatura a metà strada tra Noè e Geppetto, aveva costruito per noi. Lui non poteva più salire le scale, e iniziò a dormire al pian terreno, in cucina. Noi con lui, a turno in teoria, in pratica eravamo almeno in tre ogni notte. Sembrava un accampamento di fortuna, di brandine e teste reclinate sul tavolo. Io provai anche a disegnare in quelle notti, disegnai boschi intricati come mi viene voglia di fare ogni volta che non mi capisco più. La morfina gli faceva perdere lucidità, ogni tanto si svegliava di soprassalto chiedendo dov’era, se era in ospedale. Non appena gli indicavamo le travi del soffitto della cucina, ricordandogli che le aveva fatte lui, si rasserenava. Quando mancò, la notte del 29, annunciata da un tramonto di una bellezza infuocata e stordente, eravamo tutti là. Tutti. Noi in piedi e lui disteso. La concitazione di alcuni ed il dolore silente di altri furono gli stessi che di lì a qualche anno scoprii nello straordinario Compianto su Cristo morto di Niccolò dell’Arca in Santa Maria della Vita a Bologna. Provai un dolore che ancora adesso ricordo fisicamente, mi sentii strappare da qualche parte dentro il cuore (questo quando la sua anima lasciò il corpo dopo tre lunghi sospiri). Freddo fu il dolore di due giorni dopo, quando lo portarono via, quando il suo corpo varcò la soglia di casa, la soglia poco consumata della casa che aveva impiegato vent’anni a costruire. Dopo il funerale capitò quel che era capitato anche dopo la morte di mio nonno e che mi aveva tanto colpito da bambina. Lo stemperarsi del dolore, improvviso, per alcune ore, il riaffiorare di tanti ricordi come uno stormo veloce di uccelli in cielo. Ci ritrovammo tutti a parlare di lui. Non avremmo smesso mai e si guardavano le foto, si raccontavano gli aneddoti. Di quando attraversò l’oceano poco più che ragazzo per andare in Argentina, di come gli si inumidivano gli occhi ogni volta che sentiva parlare in spagnolo, via via attraverso tutta la sua vita fino all’ultima passeggiata in collina a cercar funghi due settimane prima di morire, una passeggiata che era un saluto ai luoghi e rischiò di non riuscire a tornare sulle sue gambe. Una mappa collettiva di ricordi ed immagini, era. E’ anche così che non si muore. Come dice tuttora mia madre a chi telefona perché trova il nominativo nell’elenco Al momento non è in casa, ma abita qui, sì.


(Laurette), It’s my Angel and me, 2005, olio su tela, cm 118×149, particolare

 

Lunedì, 8 Gennaio 2007
(viva la musica che ti va/ fin dentro l’anima che ti va)

Azzurro la sentivo cantare da mia zia quando eravamo al mare ed io avevo cinque sei anni . Bartali era la passione del mio primo moroso, e ogni volta che diceva scalpitando sui miei sandali c’era da morir dal ridere a vedere che versi faceva. Ma fu la mia amica Anna a farmelo scoprire per davvero intorno ai venticinque anni. Ascoltando i suoi consigli mi comprai subito Paolo Conte live, quello con lo sfondo nero e la mano a nascondere gli occhi. Tornando a casa l’ascoltai subito in macchina. C’è un semaforo che ancor ora è legato per me a quella memoria: ferma col rosso, lì ascoltai per la prima volta Max, uno dei pezzi che amo di più. Gli anni successivi ho imparato a conoscere tante sue canzoni, usandole regolarmente come antidoto contro l’opacità della vita sempre in agguato. Si deve pur sopravvivere, anzi vivere. Boogie mi tira in piedi e mi toglie il fiato ogni volta che l’ascolto, Quei due sapevano a memoria dove volevano arrivare è un verso che dice così tanto dell’amore, come della mia infanzia ritrovo tanto in quel verso che viene un po’ prima (…) una di quelle drogherie di una volta che tenevano la porta aperta davanti alla primavera. Ogni volta che ascolto Eden mi catapulta in una dimensione ideale dove immagino ci sia mio padre Solo in un silenzio penso a niente / e voglio solo te,/ padre emozionato ed entusiasta/ che ti specchi in me./ Solo contro niente mi accontento /e non mi annoio mai, / suono un bel saxofono d’argento/ e non mi sbaglio mai. Angiolino e le frittelle con le mele e con il vino di sua moglie mi commuovono, m’impiglio io, ovunque sia, e non uscirei mai da quelle note, da quell’architettura di parole. Con Blue tangos ho dipinto e ho immaginato mille vite diverse dalla mia, ed anche questo è un modo per viverle un pò . Lontano mi hanno portato Diavolo rosso, Messico e nuvole, Via con me. Happy feet mi diverte e mi capita di cantarla anche ai bambini facendoli ridere (oltre ad Azzurro e Un gelato al limon). C’è quella in napoletano che mi fa venire un groppo in gola ogni volta Ma Si T’a Vo’ Scurdà . E ce ne sono molte altre, fondamentali nella mia vita. (Buon compleanno).

 

Mercoledì, 10 Gennaio 2007
Da questo filo

Sospesa quassù su questo filo,
che guardo solo avanti e procedo (rare pause),
passo piccolo passo un pò più lungo passo come viene viene,
passo piccolo passo come viene viene passo un po’ più lungo
( non guardo giù che m’impressiono)
da qui, dicevo,
sto dipingendo una città che sembra fatta di costruzioni di marzapane
e zucchero filato nell’aria.
A volo d’uccello.
Da questo filo.

 

 

Mercoledì, 10 Gennaio 2007
Piccola storia di pittura

L’ho rivista ieri , dopo quasi vent’anni. Eravamo ad un’inaugurazione, davanti ad un grande quadro. Bellissimo. La folla si era provvisoriamente diradata nelle sale per formaggio e noci, vino , pizzette e altre golosità. Ma ti ricordi che bravo era a insegnarci pittura, e a lasciarci anche la sofferenza della tela bianca, che tanto quella non te la può togliere nessuno?
Lei mi sorride dicendo sì. Mi ricorda che allora lei non aveva mai soldi, trovare i soldi per l’affitto era una gran fatica . E io ricordo, sì, c’erano giorni in cui spariva con il suo ragazzo e in aula di pittura non si vedevano più. Diventavano ritrattisti in giro per la città, o disegnavano gondole e palazzi che si riflettono in canale, o almeno così me li figuravo, perché in azione non li ho visti mai. Nonostante questo i soldi erano sempre pochi e lei , davvero piena di talenti e con addosso una scarica di vita che stordisce, disegnava grandi carte con il carboncino, che costa poco. Un giorno , dopo aver visto i lavori come faceva ogni mese, lui, il nostro insegnante di pittura, le dice Ora basta col carboncino, voglio colore. Ma non ho i soldi per comprarli. E lui prende da ogni piano di lavoro dell’aula uno di quei tubetti arrotolati di colore che restano sempre lì, che non usi più e però neanche butti. Un po’ di colore dentro ciascuno. Ne prende uno da ogni postazione di lavoro fino ad ottenere un mucchietto che mette nelle sue mani dicendole Adesso mostrami cosa sai fare col colore. Ed è quello che lei fa da allora.

 

 

Sabato, 13 Gennaio 2007
Stanze di segni

Cercavo un sito per un’amica stanotte. L’ho trovato, con sette otto immagini a rincorrersi, a sfumare l’una nell’altra. Immagini legate al mondo dell’incisione, dell’acquaforte. Tagliare le lastre, prepararle, stampare. E così i pensieri della sera provano, sopra tutte le brume e le nebbie della giornata, a prendere per mano i pensieri della mattina dentro questo post. Ci pensavo viaggiando all’alba, mentre la nebbia fuori faceva correre il treno dentro uno spazio che di quotidiano non aveva nulla e di simbolico tanto: Seghers, la Print room del British, che esperienza sublime, fu. La prima volta lasciai Praed street diretta al British poco convinta. Quella stanza d’ospedale, con dentro quel bambino in una culla di vetro, non mi avrebbe consentito di volare in altri cieli. Non lo credevo possibile ma tentai . Il primo anno del master era da concludere, un peccato lasciare a tre mesi dalla fine. Avevo il badge pronto da tempo e arrivai emozionata alla porta. Mi fecero entrare, lasciai le cose che non mi sarebbero servite, mi ricordarono le regole di quel luogo, ispezionarono la mia borsa per assicurarsi che non ci fossero penne o altri strumenti che uno scellerato potrebbe usare per arrecar danno alle stampe. Così, munita di matita e guanti bianchi di cotone, mi fecero prendere posto in quella che aveva l’aspetto ed il fascino delle più belle biblioteche storiche viste in vita mia. Ma piuttosto di libri gli scaffali custodivano contenitori con dentro stampe, disegni e incisioni dei grandi. Compilai il modulo. Hercules Seghers, scrissi con emozione. Lo consegnai a una ragazza del personale, e restai in attesa. Mentre aspettavo mi guardavo intorno e sentivo che il dolore profondo del mese appena passato, lo stordimento sordo di quello che stavo ancora vivendo, in quel posto lì prodigiosamente erano messi in standby, inghiottiti da una nebbia di luce. Era provvisorio, lo sapevo, ma prezioso. Il silenzio di quella grande stanza , tutti quegli sguardi innamorati e sgranati a guardare fazzoletti di carta brulicanti di segni, la luce che entrava dalle finestre in alto: tutto questo mi faceva star bene. Arrivò il contenitore che avevo chiesto e io, col batticuore dell’amore, iniziai a prendere in mano ad una ad una le incisioni di questo grande artista del Seicento. Basti sapere che fu maestro ideale di Rembrandt, che quando tanti erano ancora dentro un’idea dell’arte legata alla committenza, al potere o alla religione, lui faceva fiorire dalle sue mani opere che sembrano fatte ieri l’altro, o forse sembrano fatte domani. Paesaggi petrosi, desolati, misteriosi, fitti di segni che scavano dentro l’anima e ti danno l’ultima sfiorettata che ti tramortisce quando ti mostrano di conoscere anche l’ arte orientale. Un incisore che come tutti i grandi incisori sperimentò mille soluzioni nuove, provò a stampare su tessuto, usò fondi colorati, in una parola aveva quest’idea purissima dell’incisione come tecnica che ha potenzialità espressive che non si possono trovare altrove. Tornai lì diversi altri pomeriggi, per vedere e rivedere, per scrivere, ma anche per rientrare in quella nebbia luminosa di silenzio e pensieri che mi ha fatto bene allora, e mi fa bene ricordare oggi.

 

Mercoledì, 17 Gennaio 2007
Anche Giovanni sa leggere

Donna con bambino che legge, Villa dei Misteri, Pompei
La sera sono da vedere, seduti nei loro letti accostati. Assorti, gli occhi corrono sulle pagine di un libro e quando si tenta di spegnere la luce perché è tardi supplicano di poter avere ancora dieci minuti per poter leggere qualche altra pagina l’uno, per guardare le figure l’altro (o almeno così credevo). Non volevo che Giovanni imparasse a leggere prima del tempo, a scuola il prossimo anno rischia di annoiarsi. Mi sono solo dedicata lo scorso anno ad un esperimento, la chiamavo per gioco la matematica affettiva, e gli chiedevo ogni mattina lasciandolo all’asilo Quanti baci vuoi? Quarantacinque. E glieli davo . E tu quanti me ne dai? Ventisei. Ci mettevamo un po’ di tempo ma era divertente. Ora conta alla perfezione fino a cinquecento e più, avanti e indietro. Ma leggere no, pensavo , lo impari dopo. Lui ha imparato lo stesso, da solo, mi sono accorta l’altra sera che legge bene, non solo parole piane ma anche suoni complessi, parole lunghe. Deve’essere stata la voglia di emulare suo fratello, o lui che gli ha insegnato, o i milleduecento libri per bambini in casa e un televisore così piccolo che ti passa anche la voglia di guardarlo. C’è qualcosa di magico che respiri nell’aria quando un bambino inizia a leggere, difficile da raccontare. Un mondo si spalanca davanti a loro e tu non c’entri più, puoi solo stare a guardare, in disparte. Un cordone ombelicale cade, la parola non passa più solo attraverso di te, attraverso l’adulto. Dev’essere la sensazione che tutto quello che tu hai letto e ti ha fatto emozionare, è già potenzialmente suo. E anche quello che tu non potrai. E’ successo l’altra sera. Anche Giovanni sa leggere.

 

Giovedì, 18 Gennaio 2007
Modena

Non credo che i miei piedi toccassero terra quando abbiamo camminato intorno al Duomo. Sospeso il tempo, sospese noi. Capisco una volta di più il mondo di Chagall, dopo quella mezz’ora. Era l’una di notte, non c’era un’anima in giro. Piazza Grande era un palcoscenico vuoto per noi che dopo averlo sognato quindici anni arrivavamo lì insieme. Chi ha studiato le luci? Perfette. L’aria fredda e umida era quello che ci voleva per materializzare in piccoli fumetti che sanno d’infanzia e meraviglia le nostre parole mentre uscivano dalla bocca: il Duomo impacchettato a metà, i rilievi di Wiligelmo, la porta della pescheria con i Mesi e i Mestieri, il tuo racconto di quando la pescheria c’era davvero (e ti ci mandava tua nonna) e non un negozio alla moda, quella volta che Dario Fo, la pietra Aringadora , i profili del duomo e della Ghirlandina . Avevamo anche una colonna sonora, e ce l’avevamo dentro, uguale : Sollima, ascoltato un’ora prima a Carpi in un concerto sublime. Quindici anni per riuscire a vedere il Duomo della tua città insieme? Ci è venuto ben bene, però.

 

Lunedì, 22 Gennaio 2007
Del ritorno

Giovanni Bellini, Madonna col Bambino , 1510, Milano Pinacoteca di Brera
Il giorno che siamo tornati era il solstizio d’estate. Ho poche immagini in me di quel giorno, un giorno in cui di sicuro mi sentivo in bilico, non certa di fare la cosa giusta, meno di sempre. So di essermi fermata a lungo sulla soglia dello studio prima di scendere, so di essermi girata in auto a guardare un’ultima volta quella casa di clifton road dove pensavo saremmo rimasti per sempre. Ancora adesso, ogni tanto e per gioco, se devo far vedere a qualcuno come funziona google earth, vado là, a vedere quel tetto dall’alto. Kate arrivò in ritardo quella mattina per salutarci, noi non potevamo aspettare oltre, che il ferryboat ci aspettava a Dover. Urlò in strada il mio nome, mi raccontò in una lettera che ricevetti di lì a un mese. Ho questa immagine in mente ma non è qualcosa che ho visto, me la sono figurata: Kate che arriva in bicicletta e urla il mio nome, ma il grigio dell’aria lo inghiotte.
Poi ho un bel ricordo, che dico bello bellissimo, di quando scendendo – credo fosse la Valsugana- un cielo vastissimo si aprì e sembrava uscito da uno dei più bei dipinti di Giovanni Bellini. Ricordo che lì, in quella luce, che era la somma di una luce naturale e della luce studiata per anni nella pittura veneziana, provai un sentimento di appartenenza che in giorni come questo richiamo a me per consolarmi ( amo la mia terra, troppe volte fatico a comprenderne gli abitanti, che distruggono ciò che meriterebbe cura, dedizione, ammirazione). La prossima volta che mi chiedono perché sono tornata in Italia devo tagliar corto e riassumere così Perché i miei figli possano giocare contro un cielo del Giambellino ogni primavera quando le giornate si allungano.

 

Lunedì, 22 Gennaio 2007
Lunedì 22 (vedrai)

Dimentico a casa gli occhiali
Mi ritrovo due sciarpe al collo
Giro di 90 gradi un quadro vecchio e
Trasformo la lama di luce di un fiume
In una bianca scala verso l’alto
Ho le scarpe impolverate di campo
C’è nebbia ma non c’è
Cinque frittelle ripiene da mangiare con mia madre
(Andrà tutto bene, vedrai)
Mi chiamerà mia sorella, lo so per certo
Intanto lavoro e la penso
Alzo gli occhi e vedo un piccolo quadro
Con un aereo
Che dipinsi chissà quanto tempo fa
(Un piccolo prezioso inciampo)
Il groppone nero imbiancato di panna
E la vertigine del blu.
E’ caldo qui
Si sta bene
Un silenzio buono.
Lavoro e penso a chi amo
(Andrà tutto bene, vedrai).

 

Mercoledì, 24 Gennaio 2007
A volte mi chiedo


A volte mi chiedo se davvero si impara mai dalla storia, se si impara da quello che ci dicono, da quello che sappiamo essere accaduto. Nel privato anche , nel collettivo soprattutto. Gli orrori continuano, in giro per il mondo, mascherati dall’indifferenza di tutti fino a quando all’improvviso si decide di riparlarne. Amaro, adesso che ho quarant’anni sento amaro in bocca. Fra un po’, mano a mano che si affievoliscono in me, si accenderanno nei miei figli le illusioni che si possa cambiare il mondo. Si indigneranno e magari faranno nella loro vita più di quel che io ho fatto. E ci vuol poco.
Poi in realtà non smetto di crederci (che sennò tanto vale essere morti, e non avrebbe senso insegnare né fare figli) e se fossi a scuola in questi giorni parlerei di Zoran Music (1909-2005) , così il 27, giorno della memoria, i ragazzi di terza media avrebbero un tassello in più nella loro mente.
Li porterei in aula audiovisivi e là , brava come sono diventata in power point, proietterei in successione alcuni disegni e quadri . Sopra le immagini farei affiorare piano le parole dell’artista su quella orribile esperienza. Racconterei loro tutto quello che hanno raccontato a me, tutto quello che ho letto. Dell’uomo, dell’opera.
Zoran Music nacque a Gorizia (quando questa ancora apparteneva all’impero austro-ungarico) e si formò a Zagabria ma completò la sua formazione attraverso numerosi viaggi in Europa. Per presunta attività anti-tedesca nel 1944 fu deportato a Dachau . Nella fabbrica dove l’avevano messo a lavorare e nell’infermeria, rubò matite e fogli che usò per disegnare quel che vedeva. Alcune decine di questi disegni ancora si conservano. Ci rimangono anche le sue parole. Ricordo in particolare quelle che raccontano di cataste di morti che vide, scricchiolanti, che un po’ si muovevano perché morti non erano ancora tutti. La mattina dopo- la notte era caduta la neve- quella catasta non si muoveva più. Erano morti davvero. Disegnò questo, disegnò ogni volta che poteva. Liberato, uscì dal campo di Dachau e tornò a Venezia dove riprese a dipingere soggetti legati alla voglia di vivere. Ma negli anni Settanta quelle memorie, quegli orrori tornarono a popolare i suoi dipinti , i suoi disegni, le sue strazianti acqueforti. Sono i lavori diventati celebri come la serie Nous ne sommes pas les derniers (Non siamo gli ultimi). Immagini che non hanno bisogno di commenti e che si impongono nel silenzio .Chiuderei la lezione parlando degli altri lavori di Music , quelli che cantano la vita, mostrerei i suoi celebri cavallini, le colline senesi, le sue Venezie, i ritratti della moglie Ida. Se fossi a scuola domani e dopodomani, 27 gennaio, giorno della memoria.

Zoran Music, Canale della Giudecca (particolare),1980



Nous ne sommes pas les derniers

 

 

 

Giovedì, 25 Gennaio 2007
Specchio per attraversare

Ho finito il bianco di titanio e le parole (anche lo zucchero, ma questa è un’altra storia).
Il bianco di titanio lo comprerò domani pomeriggio insieme ai pennelli e all’ olio di lino .
Le parole non le posso comprare da nessuna parte, ho da qualche settimana la sensazione che sto arrivando verso la fine di questa esperienza, o che comunque se continua non sarà la stessa cosa.
Ho iniziato per gioco, aspettando il risultato di alcuni esami medici. Mi ha preso così tanto la scrittura i mesi passati che non riuscivo in fondo a pensare a molto altro che alle parole. Quanto mi ha aiutato questo blog lo sa chi mi ama, e quanto mi ha aiutato chi passava di qui, in silenzio, o lasciando commenti. Ho travasato la mia vita facendola passare attraverso il colino fitto delle parole. Questo blog è uno specchio di quelli tondi che si guardano per attraversare, e ci si specchia la mia vita dal punto di vista dei miei quarant’anni. Ora ho la sensazione di aver finito, e me lo dice un senso di vuoto quando siedo qui, vuoto se confrontato ad un brusìo di idee che prima avevo costante, vuoto se confrontato al pieno dei bellissimi blog che frequento. Me lo dice anche il fatto che in studio dipingo bene, ho messo la quinta-se posso usare quest’espressione- e non posso pretendere di avere la botte piena e il marito ubriaco J. Va così. Se mi verrà ancora qualcosa , scriverò, sennò pazienza, che c’è un tempo per tutto, e uno anche per farsi da parte.Grazie ai miei lettori.

 

Domenica, 28 Gennaio 2007
Pungente e profumata



Una bellissima foto di Mario Giacomelli. Foto d’altri tempi , racconta di bambini che si lanciano verso una delle emozioni che si cercano sin da piccoli, conquistare l’altezza, lasciare il suolo, sfidare se stessi. Sembra di vedere il colore anche se non c’è, e i neri sono profondi e vellutati contro i grigi rigati della paglia. Solo un ragazzino è sospeso, teso nello sforzo di conservare la postazione raggiunta ed anzi ha appena deciso che tenterà di salire ancora. Gli altri si affannano, ci provano , concitati bambini che compongono un triangolo affannoso di vita: gesti, sguardi e movimenti. Nel silenzio assoluto di quando la realtà si apre come un melograno e si fa simbolo. Ai miei occhi il grande covone diventa simbolo della vita che quei ragazzini si accingono a scalare, a conoscere, ad abbracciare, pungente e profumata, scivolosa accogliente ed irresistibile come la terra. E il vecchio sulla destra, con lo sfondo di un lenzuolo bianco che lo proietta in una dimensione irreale, passa, assorto e quasi lieto. Come se il fine di quello scalare potesse anche essere quel semplice essere vecchio e in pace con se stesso.


Mario Giacomelli, dal ciclo La Buona Terra

 

Lunedì, 29 Gennaio 2007
La malinconia e l’amore che la fa passare


Sembrava uscita dai Sillabari di Goffredo Parise, la domanda di Giovanni mentre prendevo la curva, il sole invernale negli occhi. La stessa domanda che nei Sillabari la bambina fa al nonno che la va a riprendere in bicicletta nella colonia estiva. Cos’è la malinconia? Mentre cercavo in tre secondi le parole che aveva più senso dire a un bimbo di cinque anni, mi tornava in mente quella bambina, che annusava tutto e cui veniva da piangere ogni sera al crepuscolo sentendo l’odore d’incenso e quello d’umidità che saliva dai prati alti. Che bello, quel racconto, il mio favorito tra quelli dei Sillabari insieme a Solitudine.
Gli ho detto che è una tristezza difficile da spiegare. Non sai neanche tu bene perché e ti viene da piangere. Ecco cos’è, Giovanni. Specialmente se il giorno si sta per tuffare nella sera e ci si sente sospesi , mi sarebbe piaciuto aggiungere. Che l’orizzonte fa malinconia, e il tempo che passa.
Gli ho chiesto se aveva capito, nello specchietto retrovisore l’ho visto annuire guardando lontano. Intanto la canzone di Fossati finiva e chissà cosa mi chiederà la prossima volta che l’ascolta, ieri la malinconia, settimana scorsa dell’amore che fa guerra agli idioti…
L’amore Fa (Ivano Fossati)
L’amore fa l’acqua buona
fa passare la malinconia
crescere i capelli l’amore fa
l’amore accarezza i figli
l’amore parla con i vecchi
qualcuno vuole bene ai piu’ lontani
anche per telefono
l’amore fa guerra agli idioti
agli arroganti pericolosi
fa bellissima la stanchezza
avvicina la fortuna quando puo’
fa buona la cucina
l’amore e’ una puttana
che onora la bellezza
di un bacio per regalo
cose che fanno ridere
l’amore fa
cose che fanno piangere
l’amore fa begli gli uomini
sagge le donne
l’amore fa
cantare le allodole
dolce la pioggia d’autunno
e vi dico che fa viaggiare, si’
illumina le strade
fa grandi le occasioni
di credere e di imparare
cose che fanno ridere
l’amore fa
cose che fanno piangere
fa crescere i gerani e le rose
aprire i balconi
l’amore fa
confondere le citta’
ma riconoscere i padroni
l’amore lo fa
aprire bene gli occhi
amare piu’ se stessi
l’amore fa bene alla gente
comprendere il perdono
l’amore fa.

 


Arkhip Ivanovich Kuindzhi , Evening in the Ukraine,1878
oil on canvas

 

Mercoledì, 31 Gennaio 2007
Cose che funzionano



Ci sono cose che funzionano. Asili dove i bambini trasformano un po’ di rete metallica e nastri colorati in coccodrilli di due metri, i piatti dorati delle pasticcerie nei gioielli dei faraoni, noccioli di pesca e cartone in cornici dorate a impreziosire falsi d’autore fatti da loro. Trasformano le ore sempre uguali dell’orologio in viaggi d’oltreoceano. Non c’è continente dove non siano stati in questi quattro anni in cui io osservo dal portone- ore otto ore quattro- sempre più stupefatta. Inventano, impastano, modellano, incollano, stanno dentro i segni e poi ne escono, punteggiano di entusiasmi i loro giorni lunghi . Asili dove dopo aver parlato per due mesi degli egiziani ed aver rinverdito le conoscenze delle rispettive famiglie sulle divinità, le feluche, le mummie e le piramidi , ora hanno chiesto a gran voce alla loro maestra di sapere cose sullo spazio, gli astri , le stelle.
E l’ho scoperto perché l’altro giorno bevendo il tè alla frutta con Giovanni, lui ha iniziato a raccontare con gli occhi grossi che fa l’entusiasmo:
Ma tu lo sapevi, all’inizio non c’era un bel niente. Dopo c’era solo una pallina che scottava un po’. Dopo la pallina diventa grande e se vai vicino non senti niente perché era gas. Dopo c’erano dei suoni fortissimi e dei pezzettini di roccia , erano piccoli e dopo diventano delle palle di roccia e dopo si attaccavano e diventano i pianeti. Così è nato l’universo.


Giovanni, falso d’autore (da Matisse)