Giovedì, 2 Novembre 2006

Da vicino

(Esterno mattina)

Donna:           Guarda guarda che azzurro, Giovanni. Tommaso guarda.

Giovanni:        Ma dove andiamo adesso?

(Tommaso legge assorto il libretto per la manutenzione dell’auto)

Donna:           A trovare i nonni e gli zii.

Giovanni:        Peccato che non ci possono vedere…

(si fermano ad un semaforo; lei   parla guardando fisso una colonna di tufo leccese erosa nel tempo, luce del mattino, radente )

Donna:           Certo che ci vedono, magari da là sopra, da quell’azzurro lì, ma secondo me ci vedono.

Tommaso:      Ecco, ho trovato. Qua spiega come cambiare l’ora, a pagina 48.

Giovanni:        Però è un peccato che non ci possono vedere da vicino…

Donna:           Come dici? (occhi lucidi)

(Clacson che invitano ad andare)

Domenicognoli2_2
Domenico Gnoli, Curl, 1969
c., acrilico e sabbia su tela
 
Giovedì, 2 Novembre 2006

Mondrian (il salto e la morbidezza)

Sono stata a Brescia a vedere la mostra di Mondrian e mi sono portata a casa due riflessioni.

La mostra  è ricca di opere che mostrano tutto il percorso di Mondrian dalla figurazione all’astrazione; ci sono bellissimi paesaggi, coloratissimi mulini a vento, studi di fiori , ritratti e autoritratti, alberi, alberi che non sono più solo alberi, composizioni che hanno la memoria dell’albero, composizioni di assoluta purezza e bellezza.

C’è un punto straordinario nell’esposizione nel quale in quattro opere si gioca il passaggio dal figurativo all’astratto. Ho sempre visto quelle opere citate ed accostate nei libri ma l’altra sera quando le ho viste là appese una di seguito all’altra ho provato un’ emozione così forte. Ho provato a figurarmi il pittore che aveva già avvertito il nuovo arrivare  ma in quel preciso momento, appena dopo L’albero rosso (1910), deve aver avvertito che   il nuovo era alla porta (qualcosa di solo suo). E lui l’ha aperta, l’ha spalancata, per far entrare il nuovo ha lasciato che il vecchio uscisse. Ci vuole più coraggio di quanto non sembri a lasciar andare le parvenze del reale, dev’essere come lasciar andare l’idea di un amore.

L’albero si schematizza sempre più, si semplifica, si libera dalla sua materialità . L’albero grigio (1911), Melo in fiore (1912) sono lavori di sublime bellezza .

Perché una cosa nuova entri si deve aver il coraggio di farne uscire un’altra (quasi sempre), questo ho imparato da Mondrian l’altra sera, davanti a quella parete.

A seguire  tanti bellissimi lavori astratti fino alle celebri composizioni fatte di forme geometriche  nei tre colori primari con le linee nere ortogonali. Meraviglia per me scoprire che hanno una morbidezza nell’uso del colore che mai avevo visto trapelare dalle riproduzioni fotografiche. Sono andata avanti e indietro a lungo e ripetutamente come si fa davanti ai quadri, ragionando intorno a questa misteriosa inaspettata morbidezza. (Mi studio il catalogo, poi vi racconto il resto. Intanto vi dico che è) Da vedere.

 

Mondrian
Mondrain, 1921
Composizione con piano rosso grande
giallo, nero, grigio e blu, , olio su tela
Gemeentemuseum Den Haag, L’Aia

 
 
Lunedì, 6 Novembre 2006

Irish drum

Ce lo regalò Fiona quando nacque  Tommaso nel 1998. Non mi ricordo se disse che portava anche fortuna, ma mi parve proprio un bel regalo. Un piccolo tamburo irlandese con tanto di decorazione celtica. Per qualche tempo lo appesi al muro della loro stanza da letto fino a quando prima Tommaso e poi Giovanni iniziarono a giocarci. Quasi subito accadde quel che capita a tanti giochi di bambini : il distacco, la separazione e cioè  il tamburo si separò dalla bacchetta che serve per suonarlo. È una cosa che mi mette sempre una certa inquietudine, quando si rompe un’unità, una coppia che funziona. E’ la stessa cosa che mi capita ogni volta che un calzino perde il suo compagno, o come  quella volta che fuori da San  Siro mi rubarono la valigia con dentro mezzo pigiama ed ora ogni volta che vedo l’altra metà da sola sento un minuscolo aculeo pungermi.

Ogni volta che trovavo in giro per casa il tamburo pensavo E la bacchetta? Ogni volta che trovavo la bacchetta non c’era verso di capire dove fosse il tamburo. Poi uno si rassegna ma con un retrogusto di pensiero triste.

Ma arrivò un giorno, sarà già passato un anno, che non so per quale caso il tamburo fu portato in macchina e lì in mano a Giovanni si trasformò, diventando un volante per guidare l’auto. Me ne accorsi presto e la cosa mi divertì, il tamburo esisteva felicemente da solo, che la bacchetta non fosse più  con lui non aveva alcuna importanza visto che ora era un volante. Felice Giovanni, felice io, felice il tamburo.

Da  lungo tempo dunque ogni mattina quando sale in macchina Giovanni vuole il suo volante, se Tommaso prova a fregarglielo lo difende con i denti. E si va.

Qualche giorno fa abbiamo percorso due migliaia circa di chilometri e seduta accanto a lui mi sono resa conto che Giovanni guida per davvero tutto il tempo con una serietà impressionante, non è che gioca, guida proprio, occhi fissi sulla strada sbilanciandosi a destra per poterla vedere dal sedile dietro, quando non ce la fa più dopo qualche centinaia di chilometri avverte e dice che è stanco. Poi riprende. Guida e canta.Col buio dice che non ce la fa.

Allora io ho guidato tutto un anno senza sapere che dietro avevo qualcuno che guidava con me. Lo sentivo solo cantare Bambola o Mercedes Benz o The wheels on the bus la mattina portandolo all’asilo, ma lui guidava. Tutto il tempo. Mio figlio più piccolo, il mio angelo custode.


Angelo_1
 

Martedì, 7 Novembre 2006

Piccoli pensieri a margine di un compleanno

Oggi mia sorella compie gli anni e mi tornano  in mente le feste di compleanno di novembre.

Bambine, ci affascinava che ci fosse la cadenza della tabellina del sette; solo io avevo sgarrato di un giorno, ma che fa? Evidentemente la regola, il ritmo affascinano i bimbi , come è vero che ci piaceva che i nostri genitori ci mettessero tutti in   fila per far vedere orgogliosi che crescevamo seguendo una scala rigorosa dal più piccolo al più grande. Quanta armonia in quegli anni .

Erano tre piccole feste in un solo mese, non mi ricordo  regali ma immagino che ci siano stati, la torta grande era una per tutti e tre, un anno si mangiava il 7 di novembre, l’anno dopo il 14, poi il 22 . Ricordo  lo stare insieme, ma soprattutto quel senso di appartenenza , di avere qualcosa in comune (scorpione versus capricorno, poverini toro e gemelli soli in panchina) che avremmo sentito anche se nessuno mai ci avesse detto che eravamo dello stesso segno. Mio padre, mia sorella ed io fatti uguali: tutto o niente, silenzi impenetrabili, gioie improvvise, tenacia, sentire profondo.

Mi accompagna lei quando vado là, è sua la spalla sulla quale appoggio la mia testa, è mia la testa sulla quale lei appoggia la sua testa. Così ci siamo ritrovate qualche giorno fa sedute su una panchina in corridoio, triangolo isoscele addormentato e vuoi vedere che quei cinque minuti che abbiamo dormito là in punta, al vertice, c’era il pensiero di mio padre?

Buon compleanno a te.

 

 

Kandinskij


Wassilij Kandinskij, Punte nell’arco, 1927
Parigi, collezione privata
 
 
Giovedì, 9 Novembre 2006

Bacio della buonanotte che bacia altri pensieri (per Giovanni e Tommaso)

 

mi spiace non avervi salutato come volevo con un bacio così

ma andavo di corsa, di corsa vado sempre, di corsa torno ora.

oggi otto di novembre duemilaesei  sono stata bene qui

a casa domani spero di stare ancora meglio  se

uso quel rosso che cercavo da tanto e ora   sì

(nove novembre compie gli anni la mia amica g.).

il punto e virgola e il passato remoto sono morti

i linguisti lo sanno da tanto ma io lo scopro

per caso stasera e dovrò farmene una

ragione per cui passato prossimo e

presente per l’uomo frammentato

moderno, punto o virgola. poi

il mio nuovo racconto ha

detto  è molto molto

interessante e per

finire vi auguro

buonanotte.

vi bacio

da qui

11.33

8/11

 
 
 
Venerdì, 10 Novembre 2006

K.R.

Camminarono così tanto da non sapere più bene dov’erano, lei non aveva mai camminato fin lassù con la sera così vicina, ma con lui si sentiva protetta. Continuarono, sempre più su, lei davanti lui dietro, lei ora riconosceva a tratti il sentiero che anni addietro suo padre le aveva insegnato. Ad un certo punto il sentiero non si vedeva più e si camminava nell’erba . Arrivarono sul cocuzzolo della collina  senza fiato , rossi in volto, sudati. Lei quasi inciampò là in cima, e rise per pochi istanti (ogni volta che inciampava pensava a quando cadde davanti alla scuola il primo giorno degli esami di maturità).

Con un cenno del capo gli disse E’ questo che volevo farti vedere.

Nella luce dell’ultimo pomeriggio la visione si sfocava ai margini acquistando un’aura di irrealtà. Era la pianura che avevano di fronte a sè, amplissima, campi che correvano inesausti verso l’orizzonte, dentro l’orizzonte. Sembrava, il vivere, più semplice da lì. Le stradine chiare, le case, gli  alberi, il viale dei tigli . Paesi e colline più basse là, all’orizzonte Venezia, forse. Senza parlare guardarono tutto questo a lungo, sedendo vicini. I colori mutarono, intanto. La pianura si stava addormentando nel blu e solo le luci, quelle immote e quelle che si muovevano delle piccole auto laggiù, erano ora una sinopia di quel che avevano visto fino ad allora.

Ma il cielo. Il cielo che fino ad allora si era tenuto in disparte, uscì di corsa sul palcoscenico e disse: Son qua!

In lei crebbe allora l’emozione più struggente. Lei che quella terra la conosceva da sempre si accorse che per lui il cielo si era ammantato di uno splendore raro. Tutto il giro dell’orizzonte era bardato di un nastro arancio che risaltava contro il nero blu della pianura avvolta dalla sera e contro la luce ancora chiarissima in alto (come questo avesse potuto accadere così in fretta, lei non capiva, doveva essersi persa nei suoi pensieri). Bastava socchiudere gli occhi e sembrava di avere dinanzi a sé un enorme vastissimo Rothko.



Paul Klee, Highways and Byways, 1929

Rothkomarkyellowandgold_1


 
Domenica, 12 Novembre 2006

Semaforo

Iniziò per caso, ad un semaforo di una strada secondaria di Chiswick. Era notte, una bella casa inglese immersa nell’oscurità. In alto una finestra con la luce accesa. Un uomo al computer (scriveva?). Osservammo insieme, giusto quei quindici venti secondi prima che il semaforo ci invitasse ad andare.

Tommaso era in ospedale dalla nascita a Paddington, ci rimase per cinque mesi.

Da quella sera quasi ogni sera tornando dall’ospedale, stanchi forse dei nostri stessi pensieri, a quel semaforo mettevamo il naso dentro la vita di quell’uomo.

Iniziava ben prima di arrivare lì, e uno dei due immancabilmente chiedeva:

Secondo te, stasera c’è o non c’è? No, non c’è, per me non c’è, c’era ieri e ieri l’altro, sarà pur uscito. Sì, sì, io mi sento che stasera c’è. Facevamo anche scommesse, chi perdeva metteva fuori l’immondizia, faceva la spesa da Tesco a fine settimana. Poi si arrivava lì, a volte fermi col rosso altre si guardava passando con il verde. Quasi sempre c’era, oppure non si vedeva lui ma la luce era accesa, raramente era tutto spento. Iniziammo a chiederci chi potesse essere, che cosa stesse facendo . E’ uno scrittore! No, un astronomo…un commercialista , un poeta. Secondo te ha famiglia o è solo? La sua donna è nella stessa stanza o è di là? Soffre d’insonnia, ha un amore lontano, è al computer e si fa pinte e pinte di birra? No secondo me uno così beve Lagavulin. Gli suoniamo il campanello e gli diciamo lei ci è simpatico.No, siamo in Inghilterra, ricorda, gli scriviamo una lettera!

Quel signore ci aiutò in quel periodo a  pensare per mezz’ora ogni sera ad altro da noi stessi, era un gioco divertente che ci faceva ridere e liberare la mente in un periodo in cui non era la cosa più semplice del mondo.

(Ogni volta che guardo questo quadro di Magritte, mi torna in mente una storia.)


Limperodelleluci_4

Renè Magritte, L’impero delle luci, 1954 
 
 
Lunedì, 13 Novembre 2006

Tenda illuminata

Mi è capitato tante volte di chiedermi pensando ad amici Ma guarda che giro ho dovuto fare per conoscerlo, per conoscerla. Sì, perché ci si potrebbe anche conoscere al bar e uno inciampa e va a finire tra le braccia di un altro (che bel inizio d’amicizia sarebbe) o in vacanza, vicini di ombrellone. Invece per conoscere lei ho dovuto fare un giro pazzesco fino ad arrivare in quella stanza d’ospedale.

Immagino a volte di vedere l’Italia dall’alto in quella mattina d’inizio estate , eravamo due minuscoli puntini che si muovevano da luoghi lontanissimi  per raggiungere Milano, stessa stanza dell’IEO, otto e trenta  a digiuno.

Ci siamo guardate disilluse e ci siamo mosse con grande cautela all’inizio. Sapevamo di essere lì per la stessa ragione, sapevamo che avremmo dovuto vivere nella stessa stanza per tre giorni.

Ti pensi se ti capita nel letto accanto una che parla tutto il tempo e legge confidenze,oppure, per una che ama chiacchierare e leggere confidenze, trovarsi vicina per tre giorni una che parla poco, guarda sempre le betulle fuori dalla finestra e legge che ne so Alda Merini e Andrea Zanzotto?

Questi i timori di tutti, questi anche i nostri timori mano a mano che tiravamo fuori dal bagaglio le nostre cose. Fatto questo, si sentì nell’aria un sospiro di sollievo. Era lei? Ero io? Chissà. Avevamo cose simili ( libri soprattutto), c’era la possibilità che lo fossimo anche noi.

Passammo  molto tempo a leggere da subito, nessuna delle due avvertiva la necessità di sapere troppo dell’altra, la malattia ce la raccontammo subito questo sì ( vicenda comune stessa età stesse speranze impigliate come salsedine interiore tra le ciglia dopo il pianto). Il resto no. Io dormii molto il pomeriggio del primo giorno, lo dissi con trasparenza Sono stanchissima, scusa. Dormivo e non dormivo. Ogni tanto aprivo gli occhi e vedevo il suo profilo bellissimo, leggeva, leggeva, leggeva. La chiamavano in molti al telefonino, e non stentavo a capire perché. Era in un momento davvero difficile, era un pettirosso intrappolato nel gelo, volerle bene da subito era una tentazione forte.

Dopo mi si sfaldano i ricordi, non so più se fu prima o dopo la comune operazione. Era  sera , dopo esserci sforzate insieme di guardare un film assurdo, chiudemmo la tv e iniziammo a parlare. Parlammo senza  vederci. La tenda bianca che c’era tra i nostri letti era rimasta tesa da quando erano passati i medici e ora era gonfia di luce, la luce calda della lampada accesa all’angolo della stanza. Mi avvolse una sensazione dolcissima e stordente, e cioè che fossero solo le nostre anime a comunicare, c’era solo questo bianco puro e teso che resisteva contro la notte estiva che premeva da fuori, bianco bellissimo e parole, che provavano insieme a farsi una ragione delle solite cose incomprensibili della vita.( Chi sei tu di là da questo bianco? pensavo).Serve dire che parlammo d’amore? Che avevamo paura entrambe? Figli a casa? Vite ammaccate? Che quel che leggevamo sbucava fuori di tanto in tanto tra le nostre parole come il giallo delle ginestre?

Pensai alla celebre opera di Piero della Francesca, Il sogno di Costantino, dove c’è una delle più belle tende illuminate che io ricordi in pittura. A volte non so se sono i pensieri che nascono dal visibile, o il visibile che trova una dignità ancor più alta in ciò che il pensiero vi proietta sopra. Senza quella tenda illuminata  tra di noi forse quella conversazione non mi avrebbe scosso così in profondità, allo stesso modo la tenda illuminata sostiene il dipinto di Piero quanto il controluce dell’angelo in alto a sinistra , o dei soldati ai lati. Questo accadde, che non scorderò: mentre parlavamo la luce ci guidava come i sassolini lucenti nella notte che portano a casa Pollicino.

Ci lasciammo tra le risate dopo i tre giorni. Mezz’ora prima di andare, nel momento in cui ci si scambia l’indirizzo e il numero di telefono, parlammo delle cose che di solito si dicono subito, le cose materiali, io vivo là ma a settembre trasloco, dove andrai in vacanza, che bello il tuo ipod quanto l’hai pagato. Quei tre giorni avevamo parlato ( e taciuto quando occorreva) delle cose che non hanno contorno netto, consistenza costante, fine ed inizio certi, come la luce in quella stanza quella sera che eravamo insieme noi.

Pierodellafrancesca_1
Piero della Francesca,
c.1455
Il sogno di Costantino,
Affresco , San Francesco, Arezzo
 
 
Martedì, 14 Novembre 2006

Resurrezione

Si partiva coraggiosi, sfidando il detto Natale con i tuoi Pasqua con chi vuoi (un anno due i miei mi guardarono storto, poi passò).Era così bello impastare il gelo invernale con il batticuore dell’andare. Coraggio ci voleva anche per partire con quella macchina lì, una due cavalli arancione bellissima. Ma lei sapeva il fatto suo e non mi tradì  mai. Volevo vedere bene l’Italia, la pittura in giro per chiese e musei, ma non solo. La gente, il paesaggio mutare, il costruire. Pasqua e Natale le occasioni in cui si andava un po’ più lontano. Completare il giro di Piero era per me un sogno. Credo iniziammo a Rimini nel tempio Malatestiano, un Natale eravamo a vedere la bellissima Madonna del parto a Monterchi e le Storie della Croce ad Arezzo . Era Pasqua quando vedemmo ad Urbino  La flagellazione e a Firenze i famosi ritratti di Battista Sforza e Federico da Montefeltro.Ma io da ieri che ho scritto tenda illuminata penso alla Resurrezione ed al giorno (era sotto Natale) in cui arrivai a vederla a Sansepolcro. Io non so dire cosa provai, so che stamattina, che non so perché non gira vorrei essere lì. Quel piede fuori dalla tomba, quello sguardo, quella natura che si ridesta là davanti ai nostri occhi ( a sinistra il rigore dell’inverno a destra il risvegliarsi). Soprattutto quei colori, gli incarnati dell’anima, anzi del divino. Quell’azzurro-verde acqua che va a braccetto con il rosa del drappeggio.Gli uomini addormentati. La purezza del disegno e del colore. Lì vorrei essere in questo istante. Ci misi un po’ a completare il giro di Piero, ma è una di quelle cose che poi ti restano per sempre in tasca, un paio di occhiali che puoi inforcare di fretta quando la realtà è caotica o incomprensibile.Guardo lì, e anche se tutto questo tempo è passato da  lì, dal Quattrocento di Piero, cerco di trascinare più che posso qui (nessuno sa quanto peso possono portare le spalle di un uomo, mi ricordava l’altra sera un’amica raccontandomi di un poster che aveva in camera da ragazza).Il silenzio che c’è dentro i suoi lavori mi placa. Silenzio e misura.Solo sapere che presto rivedrò Il battesimo alla National mi fa venire il batticuore. E un po’ meglio gira già.

 

Laresurrezionedicristo_1
Piero della Francesca
La resurrezione di Cristo
affresco 225×200
1463-1465
Sansepolcro, Pinacoteca Comunale
 
Rothko, No. 2, 1962
Mercoledì, 15 Novembre 2006

:)

Pane caldo, piedi nell’erba, stesi nudi, acqua nell’aria, perle di luce, bambini che corrono, odore di matita, primo giorno di scuola,dita che corrono sulla ringhiera,

sole velato, muratori che bevono birra, metropolitana per pensare, scale mobili per rinascere, il fiume della mia città, odore della domenica mattina,

il treno dove sono cresciuta, la casa che mi portava ogni volta da te, aerei di Heathrow sopra la testa, acqua piovana, i tanti rossi dei tetti, le prime gocce di pioggia sulla strada.

(15 novembre, mentre aspetto in macchina a cento metri da casa che gli operai finiscano di asfaltare così posso rientrare)

Rothkono21962
Rothko, No. 2, 1962

 
 
Giovedì, 16 Novembre 2006

Non ci penso

 

Non ci penso neanche ad uscire da questo nido

di parole e colori intrecciati

non serve riparo qui per trattenere il tepore a portata di respiro

sto qui perchè è un tempo così, da star fermi

i pensieri girano rondine e il nido si fa giostra

centrifuga dolce che smuove la mia vita.

Quella che è stata finora

tratteggia nell’aria quella elicoidale che sarà.

E allora  nido mio andrai mongolfiera

di pelle di latte fenderai il cielo.


Gianquinto

Alberto Gianquinto, Nino ha XXI anni
olio su tela

 
 
Giovedì, 16 Novembre 2006

Inclinate

Ho fatto quattro passi dentro la settimana, lunedì martedì mercoledì giovedì e ora da questo giovedì provo a scriverne. Qualche riga, che di architettura non sono tanto brava a parlare.

Volevo portarli a passeggiare in campagna, avevo in mente un luogo che mi è caro, lontano, e poi ci siamo spinti fin lì. Un cimitero: ma lo è e non lo è. Ho preso i bambini per mano e sotto l’arcosolio ho spiegato loro: Guardate che bello, queste due persone si sono volute così bene che ora le loro tombe si inclinano l’una verso l’altra. Avevano gli occhi grossi della meraviglia. Alzando lo sguardo la copertura a tessere colorate scintillava gioiosa. Ho spiegato la parola mosaico. Normaton passeggiava sull’erba e mi ha chiesto Ma non potremmo chiedere a R. di progettarci una tomba di famiglia? Relax, gli ho risposto, e gli ho dato un bacio.

Poi il prato e fili d’acciaio a indicare un confine. E’ facile oltrepassarlo, ma dentro uno sa che ha passato un confine, e il pensiero lentamente va verso un’idea della morte tollerabile e chiara, tollerabile come il piegarsi cui ti induce il muro di cinta inclinato verso l’interno. Ti piega, ti rallenta nell’andare ma non ti ferma. (I bambini intanto corrono, guardano, toccano i dettagli, le superfici a dentelli, le decorazioni a mosaico, le foglie, l’acqua, l’erba).

Oltre il prato lo stagno, con al centro il padiglione di meditazione. Specchi d’acqua, ninfee ogni anno più belle ( e anche ora che è novembre e i fiori non ci sono io ne racconto a Giovanni la forma, il colore, l’incanto). Pesci rossi che si nascondono e sbucano tra le grandi foglie. Acqua che corre. I famosi due cerchi che si incrociano.

La cappella avvolta nel silenzio e invasa dalla luce che disegna geometrie.( I bambini firmano il librone delle visite, Tommaso è affascinato nel vedere quante firme di visitatori arrivati da lontano, dal Giappone, dall’America, dalla Francia. Giovanni fa una firma  grande come mezza pagina, ma ordinata, lieve, a Scarpa sarebbe forse piaciuta. Sorrido). La tomba dell’architetto in un angolo. (Sistemo i fiori scomposti dal vento).

Carloscarpa_006

Carloscarpa_011

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Carlo Scarpa, Tomba di famiglia Brion
1969-
1978. Ha fatto cantare il cemento.

 
 
Sabato, 18 Novembre 2006

Specchietto retrovisore (Tommaso che legge)

Siamo partiti con la Picasso e abbiamo navigato senza intoppi. Microfelicità lungo la strada, il verde che mi saluta prima di diventare altro, l’odore buono della vernice che usano per le strisce bianche sull’asfalto, stormi di uccelli che trapuntano il cielo prima di andare.

Tu mi sei dietro e cosa fai? Leggi. Un giorno di questi mi farai sentire inadeguata. Passi che tu conosca tutte le capitali del mondo e io no, le bandiere, le monete, le rocce, gli insetti, i babilonesi gli assiri e lo spagnolo ma anche il greco ti dovevi mettere in testa d’imparare?

Colpa mia, che ti ho insegnato da piccolissimo che con un buon libro non si è mai soli, che è un amico, che-magia- con lui ci si muove nel tempo nello spazio e tu ora ti sei circondato della più folta schiera di amici che un genitore di un bambino di otto anni possa sperare.

Ti guardo nello specchietto mentre vado, cresci che mi viene da piangere, eri così piccolo quando sei nato che quando, lontana, dissi a mia madre al telefono quanto pesavi, lei replicò Non è possibile. Lei, madre di cinque figli di quattro chili e passa ognuno, quel pomeriggio rincorse il gatto di casa per rendersi conto, lo prese a fatica, lo pesò scoprendo che pesava più di te.

Ma ora.

Quando leggi sei più bello di sempre. Sembra quasi che tutti i mondi che incontri leggendo navighino poi fuori di te ed io li possa vedere per qualche istante, nella tua pelle perfetta e chiara, isole di bellezza come quelle venticinque efelidi che ti hanno spruzzato sul naso.

Come hai fatto a imparare a leggere da solo, ancora non so. Sì, ti avevo costruito dei libretti con le parole perché tu imparassi col metodo globale ma un giorno mi accorsi che tu andavi da solo per quella strada che so importante, vacillando appena un po’. Avevi quattro anni.

Ora leggi con una velocità che stupisce, il tempo di fare cinque chilometri in macchina e fermarmi a comprare il pane  un giorno avevi già finito un libro, certo un libretto per ragazzi ma pur sempre un libro. Sono tornata in libreria dicendo Ce l’aveva già e l’ho sostituito con un altro. Lo so, non si dovrebbe fare, ma ci sono dei casi in cui si può. Questo per esempio.

A volte temo d’averti guidato lungo una strada che porta alla solitudine, in questo mondo qua fuori che s’imbarbarisce sempre più e non sa quasi più sognare qualcosa di grande.

Tu nuoti felice là dentro, mentre io aspetto qua fuori nel parcheggio della piscina. Sto ferma ancora dieci minuti a pensare , ne ho bisogno. Quando esci ti siedi davanti e se mi  ferma il vigile gli dico Ma che diamine…Lungo la strada del ritorno voglio imparare tre parole di greco, tre capitali che non conosco, tre nomi di rocce e anche di insetti. Raccontami una storia tu, della piovra di Ventimila leghe sotto i mari, o quel libro della Mastrocola che hanno regalato a me e tu hai già letto.

Ancora pochi minuti e sarai qui accanto a me. Ho bisogno di te , guida tu oggi.

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Donna con bambino che legge
Villa dei Misteri, Pompei
 
 
Lunedì, 20 Novembre 2006

Tappeto stellato

Il tappeto persiano non è mai stato bello come oggi, stellato di segnali stradali disegnati col pennarello e ritagliati con la fretta del bimbo che vuole giocare presto.

Quel bimbo sposta i pezzetti di carta da dieci minuti e deve avere in mente qualcosa che io non so, oppure è come il tempo nel frammento di Eraclito, bimbo che muove  a caso i pezzi sulla scacchiera.

Guardo il tappeto e sono senza parole, fragilissima immagine che potrebbe svanire per un solo soffio, e svanirà perché io fra un po’ dovrò dire Dai, tirali via, che si deve passare.

Ma prima mi arrampico sopra l’armadio, e tutte le prospettive cambiano, tutte (dovrei venirci più spesso quassù, o viverci, novella barone rampante).

Fotografo il tuo mondo da quassù e penso ancora una volta che non so se sono io a insegnare a te, o tu a me.


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Tappetovolante_001   Tappetovolante_003

 
 
Mercoledì, 22 Novembre 2006

Lontananze

“Dove sei, cosa fai mentre io mi gratto il naso? Parcheggi, svolti a destra, prendi la camicia dall’armadio, guardi fuori o carezzi la copertina di un libro?”

(Pensava spesso alle combinazioni possibili dei gesti di due che si pensano e alle combinazioni del loro sentire nel tempo).

“Lui l’ama lei l’amava prima

Lui l’amava lei l’amerà

Lei avrebbe potuto amarlo lui l’amò comunque

Tu ti lavi io mi asciugo

Io inspiro tu espiri

Tu inspiri io inspiro

Tu espiri io espiro

Io verso tu bevi

Io starnutisco tu sorridi

Sento caldo senti caldo

Io ti amerei tu mi ameresti

Tu mi amavi io ti amerò

Io ti amo tu no

Tu accendi il computer io spengo la tv

Io guardo Rothko e pure tu

Io alzo gli occhi al cielo e anche tu

Tu sali in treno io scendo in cantina

Mentre tu scrivi io inciampo in cucina

Io saltello tu sorridi

Io mi allungo tu ti chini

Io bevo il caffè tu bevi il caffè

Un cucchiaino e mezzo e anche tu

Letto pancia in giù letto pancia in su

…”

Questo pensava uno dei due mentre l’altro faceva le parole crociate a molte miglia di distanza.

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Caspar David Friedrich, 1822
Woman at a window,
 
 
Lunedì, 27 Novembre 2006

Si impara, come no

Tante volte nella mia vita ho ripetuto gli stessi errori. E’ come inciampare sempre sullo stesso sasso, senza riuscire a far tesoro della caduta. Cadere dove si era già caduti fa più male di cadere in un posto nuovo, vergine.

L’altro giorno, e sembrava proprio un giorno normale, senza avere l’intenzione di forzare me stessa ad essere più razionale, più pragmatica, ho fatto la valigia più piccola della mia vita. Così piccola da non essere neanche una valigia ma piuttosto una borsa da viaggio che mi ha anche evitato di perdere tempo all’aeroporto.

Ho scelto le cose che mi sembravano necessarie per tre giorni e le ho messe sul letto; guardandole mi sono accorta che erano poche poche. Sono andata da Normaton, campione di razionalità e gli ho detto (sentendomi gli occhi lucidi dalla soddisfazione) “Guarda che bagaglio piccolo sono riuscita a fare”. Lui sa di che cosa sono stata capace in passato. Ha sorriso e indicando un maglione ha detto “Questo non ti servirà”. Via anche quello. E siamo partiti.

E’ stato un partire col piede giusto, con la sensazione che anche se hai quarant’anni puoi imparare , anzi può accadere all’improvviso e non ci speravi più. Mi aspetto grandi cose da questo piccolo avvenimento.

Anni fa, dieci e più oramai, in un corso all’estero il mio tutor mi disse una cosa che io sentivo essere vera, ma m’infastidiva che lui me la dicesse.”Ti  porti appresso una borsa troppo pesante” mi disse mentre discutevamo sui miei lavori. Via questo, via questo, via anche quest’altro.Prova! Ed era vero, non sapevo allora rinunciare  nei miei lavori a tante cose inutili. Lui sapeva che io volevo spiccare il volo, che avevo le carte per farlo e mi indicava la via perché lui da fuori la vedeva con chiarezza. Nel tempo ho fatto quello che lui mi aveva detto il primo giorno che mi aveva conosciuta. Ma onestamente non ho ancora finito.

Partire con la borsa leggera . Che bello è stato.Magari conil tempo riesco ad uscire con le mani in tasca, e nulla più. Fischiettando.

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Hughie O’Donoghue, North of Rouen
 

Lunedì, 27 Novembre 2006

Scivoli

Mi avevano detto che c’erano gli scivoli alla Tate, ma non avrei certo potuto immaginare che mi avrebbero colpito così . Sono cinque enormi scivoli tubolari nella Turbine Hall  della Tate Modern. Bellissime forme  a spirale color argento con la copertura trasparente .

Dai diversi livelli del museo è possibile accedervi e scendere velocissimamente. Non si paga, ma per motivi organizzativi si deve prendere un biglietto con la fascia oraria. Possono sembrare solo scivoli, ma in realtà sono forme tridimensionali di grande bellezza ed interesse e ci voleva una mente geniale per idearli e concepirli per un museo d’arte contemporanea. La mente di Carsten Höller.

Ho visto perfetti gentlmen inglesi lasciare la loro valigetta e scendere dai livelli più alti arrivando alla fine con sorrisi nuovi per poi  riprendere  la loro giornata. Poi bambini, ragazzi , gente di tutte le età, gente che è solita frequentare i musei e gente che probabilmente non ci va quasi mai. Gente vestita in modo informale ed altra in modo elegante. Tutti in fila per scendere. Il gioco, questa cosa che non dovremmo  smettere  mai, l’artista  lo mette su di un piatto d’argento, è lì, quante volte vuoi, solo se vuoi, più o meno difficile a seconda di come ti senti. Gratis. Ma l’opera è anche molto più di questo .

Quando aspettavo che mi dessero il via per partire, tre secondi  in realtà, ho avvertito un grado elevato di ansietà. Una volta partita  l’ansia ha ceduto il posto all’accelerare improvviso del cuore, letteralmente il cuore in gola, alla sensazione di non avere più il controllo, di essere sparati verso una cosa che non sai, di dover lasciare che le cose siano, la gioia del riuscirci, l’arrivare fino in fondo. Gioia del discendere (i ghiaioni mi hanno dato in passato sensazioni simili). Una felicità bambina quando arrivi, e proprio come un bambino hai subito voglia di riprendere le scale e rifarlo.

Sono poi andata in giro per rivedere le collezioni permanenti e le mostre temporanee all’interno delle sale. Ho visto una bellissima mostra di uno scultore americano, David Smith. Ho visto altre cose nuove e rivisto cose amatissime che conoscevo già.

Ma quegli scivoli avevano il potere di attirarmi sempre a sé, e tornavo a loro come la mente torna  a qualcosa che si vuole comprendere meglio, a fondo. Come davanti ad un dipinto si va avanti ed indietro per cogliere l’insieme ed il dettaglio così io ho continuato a guardarli. Da sopra,  da sotto, da vicino e da lontano. Enormi e stupefacenti sculture con la gente dentro, questo sono. E insieme alla gente contengono, nella dimensione fugace del tempo, il grande campionario di espressioni, gesti ,risate e grida che racconta l’essere in ansia, il vincerla, il gioire, l’abbandonarsi, l’essere ancora per qualche istante quel che si è stati da bambini. Bello bello bello.

http://www.tate.org.uk/modern/exhibitions/carstenholler/photos2.shtm

 

 

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Martedì, 28 Novembre 2006

Skyline (a me stessa, probabilmente)

Non chiedermi di essere una fotografia, non chiedermi di essere un immobile skyline, lasciami precipitare e risorgere, cadere e proiettarmi daccapo verso l’alto, spostare i miei pezzi ci dovessi mettere anni a trovare il posto giusto, saranno le gru contro il cielo del tramonto, o il rosa dell’alba a dirti quanto viva sono e che viva voglio essere, non chiedermi che ne è stato di quel sorriso che sai, sarà di certo rovinato giù quella notte che mi sono persa nel buio del mio cuore (Roma, febbraio 2005). Guarda che progetto ho tra le mani, ti pare roba da poco, se in tutto il rovinare dei mesi passati costruisco una torre di specchi proprio qui dove piace a te. Ti specchierà, ci specchieremo. Lasciami abbracciare il fiume impetuoso della mia vita con nuovi palazzi e parchi , lasciamelo abbracciare con ponti chiari e giocosi come quelli che abbiamo veduto sul Tamigi. Lasciami essere.

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Giovedì, 30 Novembre 2006

:)

Quando sono uscita e ho visto il cielo trasparente ho pensato Guarda che bel vestito ti sei messo per lei che arriva in questo giorno di fine novembre. Mi immagino un lavorio notturno, a far cadere le foglie più belle dagli alberi per accogliere il suo passo, gli ippocastani della piazza a pettinarsi furtivamente i rami spogli stamattina, fili d’erba e ultimi gerani ai balconi indossare le perle più belle. Come stai? Sarai già qui? Che effetto ti farà arrivando la prua bianchissima della rocca? Spero che i tuoi siano i più astratti dei furori, per usare le parole di Vittorini che amai da ragazza, e che basterà abbracciarti, partire con un caffè e chiudere con un prosecco, o prosecco e poi un altro prosecco, parlare dei nostri sguardi. Basterà lasciare che il calore della tazza ci trapassi  e ci scaldi. Per farci sorridere .