Giovedì,
1 Febbraio 2007
Le rose di Mesola
Era una delle mie uscite intorno a Pasqua. Una consuetudine, per me
che un po’ alla volta volevo vedere l’Italia e la sua arte.
Ma quella volta chiesi se volevano venire anche loro, e dissero sì
senza che io dovessi far fatica a convincerli. Mio padre e mia madre,
seduti vicini nel salotto austero che è il sedile posteriore
della due cavalli. Ci fermammo a Mesola che erano circa le dieci del
mattino, l’ora giusta per arrivare al mercato nella piazza, vicino
al castello. Dopo aver girato un po’ col naso per aria ci separammo
con naturalezza e ognuno, in quella sosta che avevamo deciso, andò
per la sua strada. Io entrai nel castello e visitai la mostra Viaggio
in Italia. Loro rimasero nella piazza chi a guardarsi intorno, chi a
girare per il mercato, chi a mangiare qualcosa. Quando ci rincontrammo
per ripartire avevamo in più una pianta di rose rampicanti, tre
chili di pane tre, cose nuove da raccontare e una dose non quantificabile
di felicità nel cuore . Doveva essere solo una sosta ma credo
proprio che fu quello il viaggio. Quella felicità ci seguì
ovunque quel giorno e riempì la foto che scattai a loro due ,
vicini nel piano americano dell’inquadratura, come il latte sa
riempire il bicchiere fino all’orlo. Ci penso ogni volta che faccio
la Romea e passo da quelle parti, ogni volta che mangio il pane buono
del ferrarese. Ogni tarda primavera quando fioriscono quelle che da
anni chiamiamo le rose di Mesola.
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![](8)febbraio_07_file/image001.jpg)
Tina Modotti, Rose, Messico 1924 |
Lunedì,
5 Febbraio 2007
Perarolo
“Attento alla strada”.
“Ma non passano le macchine qui!”
Ne passano pochissime, è vero, e nel silenzio di un paesino che
è stato tagliato fuori dal mondo con la costruzione della strada
nuova, le poche che passano le senti che sono ancora lontane e le guardi
come si guardavano una volta, magari scommettendo dentro di sé
sulla targa (ultima cifra pari non mi ama, dispari mi ama).
A Perarolo di Cadore d’estate si cammina o si sta seduti sulle
quattro panchine della piazza ( i sette bambini del paese giocano a
pallone e gironzolano in bicicletta) , si tirano i sassi nel fiume,
si prende il sole, si va al bar da Luigino almeno cinque volte al giorno
e non solo per i gelati, si arriva al sasso della regina di Caralte,
si ripassano i nomi degli alberi, si contano i verdi fino a confondersi
e ricominciare. Si sale fino al ponte della ferrovia, si guarda se l’Antelao
ha la cintura (pioggia sicura) o il cappello (o fa brutto o fa bello),
ci si saluta dicendo Sani, si fa la spesa e Girolamo ti passa anche
le ricette. Ci si affaccia la sera alla finestra per annusare il buio,
ci si riaffaccia per sentire il fiume, si sente il treno passare dentro
il bosco mentre si prepara la cena, si beve l’acqua dalla fontanella
in strada, si sale su su fino a Dubiea (che suona bello come Dulcinea)
o comunque si pensa che prima di tornare a casa ci si andrà.
Si legge all’aperto, si mangia seduti sull’erba, si dorme
bene , l’aria profuma, la luce trapassa l’anima. Si passa
davanti al distributore abbandonato e sembra un corto circuito del tempo.
Non faccio fatica a capire perché Giovanni e Tommaso lo chiamano
il paese più bello del mondo anche se bello non è. Anche
oggi che siamo passati. E il countdown è già iniziato
.
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![](8)febbraio_07_file/image002.jpg)
Edward Hopper, Gas , 1940 |
Martedì,
6 Febbraio 2007
Tre indizi certi
Primo indizio .Me lo dicono da sempre ma non conta, è quando
te ne accorgi tu, come scrive Marquez in non so che libro, che stai
invecchiando per davvero, quando ti accorgi che assomigli a tua madre
o a tuo padre. E’ almeno un anno che me ne sono accorta. Guardo
le foto di mia madre e mi pare di vedere un po’ me stessa. (Vabbè).
Secondo indizio. Ho una scatola di legno piuttosto grande dove negli
anni ho messo le foto non riuscite quando ancora esistevano i rullini
fotografici e si stampavano tutte. Roba da non credere, foto che allora
occultavo perché mi trovavo orribile, ora mi sembrano apparizioni
di fate. Evidentemente quella che vedo allo specchio ogni mattina è
peggio. (Vabbè).
Terzo indizio. Il peggiore. Peggio delle rughe. Della smemoratezza.
Quasi. La prescrizione inesorabile di un secondo paio di occhiali oltre
quelli che da quattro cinque anni uso per leggere. Ho tentato di ribellarmi,
Ma guardi che io ci vedo benissimo da lontano, no no. No, non li voglio!
Signora è perché il suo occhio è elastico quando
tra un pò non lo sarà più da un giorno all’altro
non ci vedrà più. Mi par di vedere mia madre. Non Dove
sono gli occhiali? Ma Dove sono gli altri occhiali ? Anzi , conoscendomi
Dove sono le mie due paia di occhiali? (Aiuto).
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![](8)febbraio_07_file/image003.jpg)
Tomaso da Modena , ritratto del cardinale Ugo di Provenza (1352)
affresco, Treviso S. Nicolò (prima riproduzione di un paio di occhiali
in pittura). |
Giovedì,
8 Febbraio 2007
Eternity and a day
Mi piace molto l’immagine della copertina con l’uomo e il
cane dentro un blu che diventa greco e mediterraneo per forza , visto
il nome dell’autrice (Eleni Karaindrou). E’ la colonna sonora
di un film che non ho ancora visto e scopro ora che l’attore protagonista,
lo scrittore, è Bruno Ganz, che non ho smesso di amare da quella
volta che ho visto che aveva quelle splendide ali . Il cd arrivò
nelle mie mani per puro caso, lieve e inatteso come la neve a marzo,
come segno di gratitudine di una coppia di conoscenti cui lasciavamo
la nostra casa per una settimana mentre noi andavamo in Italia. Ma il
ricordo legato per sempre a questa musica è quello di Giovanni
che aveva appena iniziato a stare in piedi e su queste note iniziò
a girare come la figurina di un carillon. Adesso che da due giorni sono
schiantata dall’influenza e solo oggi sono riuscita a sedere a
questa sedia ( senza riuscire a far altro che a giocare un pò
con youtube), trovo un pezzettino del film e resto senza parole http://www.youtube.com/watch?v=tlv74NSNXTw).
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![](8)febbraio_07_file/image004.jpg)
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Venerdì,
9 Febbraio 2007
Calore che continua
Dopo la morte di mio padre, navigai per lungo tempo in una strana dimensione.
Continuavo a fare le cose di sempre, andavo a scuola e compravo il pane
, camminavo in collina e vedevo amici. Ma niente era più come
prima. Mi ripetevo mille volte i versi di Vittorio Sereni Adesso/ che
di te si svuota il mondo e il tu/ falso vero dei poeti si riveste di
te… e mi immaginavo questa particella di luce che esce dall’atmosfera
della terra per essere accolta da una luce più grande, quanto
più in su non so. Durò a lungo. Poi , un po’ alla
volta , tornò una sorta di normalità , andrebbe sottolineato
sorta di , ci si abitua alla sedia vuota, a un paio di scarpe in meno
giù dalla scala, alla camicia a quadretti rimasta appesa e vuota
della sua schiena, alle nostre vite svuotate dei suoi sorrisi e del
suo odore buono di funghi e sottobosco. In realtà non si ha più
il soprassalto ma quei vuoti non vanno più via, inattaccabili
e adamantini come gli spazi vuoti catturati da Rachel Whiteread. Poi
capitano cose che uno non s’immagina. Col bene che gli volevo,
che gli voglio, m’immaginavo mi sarebbe venuta la voglia di andare
spesso al cimitero . E invece ci vado di rado, tocco la lapide come
vedo fare a mia madre, ma è così fredda. Lei ci parla,
lì io non riesco, ogni volta che vado sto zitta e dentro provo
a ripetere le preghiere di bambina e poi penso ai sepolcri del Foscolo,
questo faccio. Mi appoggio con la schiena al muro di mattoni vicino
alla cappella e le mie mani, non viste, grattano nervose i mattoni che
con tutto quell’umido si sbriciolano. Un piccolo colpo di clacson
per salutarlo ogni volta che passo in auto, questo sì. Ma è
quando sono in studio e inizio che penso sempre ed invariabilmente a
lui. Sento una forza nel braccio, qualcosa che dalla mano vuole uscire
e in questo so che c’è lui che continua in me. Mi piace
pensarlo così, grande angelo alle mie spalle ma anche energia
e creatività dentro le mie vene. Calore che continua .
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![](8)febbraio_07_file/image005.jpg)
Rachel Whiteread
Untitled (Pink Torso) 1991 |
Lunedì,
12 Febbraio 2007
Rossetto per i baci
Il malato impara a vivere a fianco della sua malattia come si impara a
stare in stanza con uno che non ti va e te ne combina di tutti i colori.
Ma non hai scelta, quello lì ti è toccato per un po’,
se ti va bene come può davvero accadere, tra un po’ va a
farsi un giro e tu richiudi la porta a chiave.
Il malato dalla sua sventurata torre di vedetta osserva il rapporto del
sano con la malattia. E’ un vedere particolarissimo. Me ne sono
resa conto per la prima volta due anni fa, compravo tele e la titolare
del negozio mi chiese come stavo (la conosco da vent’anni almeno).
Sto abbastanza bene, solo che mi hanno trovato un tumore. Mi sto curando.
Bella questa juta, non l’avevate prima…Un silenzio improvviso,
lei visibilmente scossa. Ho lasciato cadere il discorso dentro il pozzo,
che il pendolo dei pensieri continuava ad oscillare. La volta dopo alla
stessa domanda mi sono guardata bene dal rispondere con immediatezza.
Ho pensato è la categoria di persone che non vuol sentire parlare
del male. Sto bene, ho risposto. Ho sorriso il mio sorriso più
quotidiano e punto. La volta scorsa - ha detto con la voce rotta da un’emozione
improvvisa- sono stata male per una settimana che mi hai raccontato quel
che ti è capitato come se si trattasse di avere un raffreddore.
E allora l’ho rincuorata, che il pianto arrivava al galoppo dentro
il verde Transilvania dei suoi occhi lucidi. Le ho parlato dei progressi
della medicina, ho citato casi e casi, veri ed inventati , di gente sopravissuta
a mister K., le ho detto che ogni giorno torna a farsi infinito, più
lungo, pieno di cose. Le ho fatto sentire la pellaccia e le ho detto Senti
che roba. Non mi ha più trattato normalmente, mi fa sconti inspiegabili,
mi regala cose, mi guarda come se fossi un eroe.
Sintetizzando ho individuato tre categorie fondamentali: 1) Quelli che
ti chiedono come stai ogni singola volta che ti incontrano ma anche di
più se passi del tempo insieme.Come stai? Bene. Sì, ma davvero…come
stai? Il tono è compassionevole e fastidiosissimo, l’occhio
sbarrato è la vigile macchina della verità che passerà
la tua risposta e tutti i dati al setaccio. Qualcuno deve aver detto loro
che facendo così di quella malattia là loro non s’ammaleranno
mai. Sono terribili e infatti li temo. Loro sembrano non temer nulla.
Mi metto il fard per loro e faccio gli scongiuri (so già cosa dicono
alle mie spalle). 2) Quelli che non ti dicono niente e cui viene da piangere.
Anche se tu in fondo fai quasi la vita di prima e hai più o meno
lo stesso aspetto di prima, loro il libro l’hanno sentito raccontare,
si proiettano verso gli ultimi capitoli, e vien loro da piangere. Viene
da piangere anche a me quando li vedo. Hanno una paura umanissima della
malattia. Mi disarmano, ecco. Mi fanno preoccupare, non mi fanno bene.
Per loro mi metto il mascara waterproof. 3) Quelli che ti chiedono come
stai ma come te lo chiederebbero comunque, uguale a prima, una volta ogni
tanto. Sono così bravi che a volte sembrano essersi dimenticati
che sono malata. Questo mi fa sentire così bene. Solo ogni tanto
hanno nei miei riguardi un’attenzione come quando da bambini ti
sistemano la sciarpa sulla bocca. Teneri, mi fanno ridere, mi ripeto và,
mi fanno star bene. Sanno che la malattia arriva, poi forse va o forse
no, come le nuvole che coprono il sole in una giornata estiva e non sai
quanto si fermano . Da sposare sono, o li hai già sposati. Quando
vanno via resta il loro abbraccio nell’aria. Per questi mi metto
il rossetto.
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![](8)febbraio_07_file/image006.jpg)
Emil Nolde, Summer clouds, 1913
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Mercoledì,
14 Febbraio 2007
Cambiare
Ieri ho regalato a Tommaso la mia vecchia grammatica di latino. Tra le
pagine ingiallite ho trovato fogli fitti di esercizi. La scrittura non
è solo scrittura, la scrittura è segno, disegno, è
l’anima stessa che si alza in volo e che si trasforma in fili neri
che poi cadono e diventano segno sul bianco neve del foglio. Sono rimasta
a guardare quei segni a lungo, un abisso sembra separarmi da loro eppure
ero io, a sedici o diciassette anni: parole scritte minute, vocali chiuse,
lettere dritte e coi piedi ben piantati a terra. Se penso cos’è
la mia scrittura ora, scompigliata dal vento, un lunghissimo domino che
rovina giù felicemente a destra. Ma anche la pittura mi racconta
la storia sempre stupefacente del cambiamento. Guardo i lavori dei miei
vent’anni e ammutolisco davanti alla forza inapparente e all’ostinata
tenacia con la quale appoggiavo velatura verde su velatura verde. Inesausta,
paziente , credevo nei sogni, li vedevo laggiù e li chiamavo a
me dando loro una mutevole sostanza e insieme respirandone a pieni polmoni
l’impossibilità (bruciava freddo come le caramelle alla menta
forte). E saltando a piè pari dentro il mio oggi, adesso sono il
rosso, sono il qui, finalmente dentro il presente, avvitata dentro il
mio giorno. Sono energia, comprensione. Quel che sognavo è accaduto,
quel che sogno accadrà, sono stata molto felice, dentro le ombre
ho preso la rincorsa per saltare nella luce. E sono felice, stasera. Sono
un vento rosso e caldo. Si vorrebbe che non finisse mai quest’età.
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![](8)febbraio_07_file/image007.jpg) |
Giovedì,
15 Febbraio 2007
In the shadow
Un’immagine sorprendente scoperta oggi per caso. Poco ci importa
della casa vera, e ci incanta invece la casa che ha fatto il nido dentro
la sua ombra. La casa vista e disegnata dai bambini, la casa che contiene
il riposo, il volo e l’abbraccio, la casa fotografata da Abelardo
Morell . E’ immaginazione e meraviglia. Puro incanto.
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![](8)febbraio_07_file/image009.jpg)
Abelardo Morell, Laura and Brady in the Shadow of Our House, 1994
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Venerdì,
16 Febbraio 2007
Neve (non ho l’età)
L’abbiamo aspettata tanto e non è arrivata. Un giorno siamo
stati collegati ore con accuweather e pareva dovesse arrivare alle due
del pomeriggio. Si sentiva nell’aria, i bambini saltellavano quasi
il loro corpo conoscesse una danza della neve. Alle due è arrivata,
ma ha spolverato solo la cima delle colline e poi si è sciolta.
Un giorno siamo andati da lei, in cima ad una montagna vera, ma anche
là era poca, indurita, con buffi fili d’erba gialli che
sbucavano da sotto. A Perarolo di Cadore uguale, pochissima, e per non
far piangere i bambini che si aspettavano di fare un pupazzo di neve
maestoso, il grande Normaton si è inventato che noi lì
avremmo fatto il pupazzo più piccolo del mondo. Basta cambiar
punto di vista, si sa e sono tornati a casa convinti di aver fatto qualcosa
di memorabile. Non credo arriverà più, a questo punto
lo spero. Per le gemme, i fiori di ciliegio, i bulbi e tutto il resto.
Il grano già alto nei campi. Allora mi regalo e vi regalo questo
video per bambini, la prima parte del quale mi incanta anche se non
ho più l’età. Neve più paesaggi dall’alto
più una canzone bellissima “Walking in the air”.
We’re walking in the air
We’re floating in the moonlit sky
The people far below are sleeping as we fly
I’m holding very tight
I’m riding in the midnight blue
I’m finding I can fly so high above with you
Far across the world
The villages go by like dreams
The rivers and the hills
The forests and the streams
Children gaze open mouth
Taken by surprise
Nobody down below believes their eyes
We’re surfing in the air
We’re swimming in the frozen sky
We’re drifting over icy
Mountains floating by
Suddenly swooping low on an ocean deep
Arousing of a mighty monster from its sleep
We’re walking in the air
We’re dancing in the midnight sky
And everyone who sees us greets us as we fly
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Sabato,
17 Febbraio 2007
Va bene
Va bene così, che parto con l’idea di lavorare in bianco
e nero e mi scappa il colore, che ho dentro sogni come castelli di carta
sghembi, che da questa poltrona bianca provo a immaginarmi lo stupore
di tutti quei bimbi al planetario. Va bene così anche se le parole
si frantumano, le punte si spezzano, che prima ancora di uscire e vederle
mi sento le colline intorno alle spalle come uno scialle . Va bene così
che sto imparando ad essere paziente con me stessa, che mi curo il mal
di schiena e tutto il resto, che scrivo storie d’amore e sembrano
fantascienza del presente. Va bene anche così, che ho bevuto
il tè da sola e non mi badano neppure stasera, persi ciascuno
dentro un loro universo. E va bene così.
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![](8)febbraio_07_file/image011.jpg)
Alexander Calder
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Lunedì,
19 Febbraio 2007
Ci sono colori che non so
Ci sono colori che non so dire. Come un maglione di Vincenzo che provammo
una sera intera a dire di che colore potesse essere e alla fine decidemmo
che quello era il color maglione di Vincenzo, o come le colline oggi pomeriggio
che guardavo arrivando e più mi avvicinavo , più il colore
scappava da ogni definizione e si faceva misterioso. Credo che allo stesso
modo ci siano dei sentimenti che non si lasciano nominare e così
come oggi le colline non erano grigie, non erano verdi, non erano terre
bruciate, non erano viola ma un’impalpabile somma di tutto ciò
nella variabile della lontananza, così ci sono dei sentimenti che
sono la somma di tanti altri sentimenti nella variabile del tempo.
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![](8)febbraio_07_file/image012.jpg)
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Mercoledì,
21 Febbraio 2007
Pit stop di carnevale
Il carnevale mi ha raggiunto a casa. Ho aperto la finestra per annaffiare
dei fiori e sono passate sette streghe seguite da un gruppetto di maghi
molto allegri e molto azzurri. Oh, hanno aperto il bar- ha detto uno
di loro- e che bella barista (in realtà ha usato un’altra
espressione, colorita come il suo naso ). Un macchiato, un fernet e
non so che altro , stavano ordinando per gioco, e io ho servito per
davvero Jameson di Dublino. E’ stato un pit stop breve e memorabile,
chiuso da manciate di coriandoli nell’aria. Loro si son portati
un retrogusto di whisky irlandese dentro la loro sfilata, io ho fatto
entrare dei coriandoli di luce nel mio ultimo lavoro. Cinque minuti
di vero carnevale anche per me, io barista, i maghi avventori.
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![](8)febbraio_07_file/image013.jpg)
Edouard Manet, Un Bar aux Folies-Bergères. 1881/82 |
Mercoledì,
21 Febbraio 2007
A lezione (le parole per dirlo)
Ero tornata sui banchi di scuola. Dovevo fare solo la fatica di ascoltare,
di imparare. Alla cattedra c’era lui e non io. Paul. Un Paul di
Dublino che assomigliava a Sting. Dopo anni mi ritrovavo ancora dall’altra
parte , ad essere bottiglia che si riempie e non bottiglia che versa.
Quella mia prima lezione di inglese lassù stava finendo che era
mezzogiorno . Mi mancava davvero solo il grembiule e il fiocco.L’emozione
era quella, e ogni volta che ho potuto ho cercato di ricrearla, di regalarmela
ancora. Anche tornata a casa, e anche tornata alla mia cattedra , ho continuato
a iscrivermi a corsi ogni volta che ho potuto. Mi piace stare nel punto
preciso in cui passa la comunicazione, da una parte e dall’altra.
Se potessi mi accoderei alle comitive che incrocio nei musei e in giro
per le città (certo se poi la guida è noiosa lascio perdere
subito), non si sa davvero mai dove si imparano le cose più importanti.
Un giorno mi misi dietro ad una comitiva che ascoltava in silenzio davanti
ad uno dei più bei dipinti di tutti i tempi, il Battesimo di Piero
della Francesca. Dio cosa disse quell’uomo. Mi piace sempre sentire
come uno fa a dirlo, le parole che usa, sia che si tratti del secondo
condizionale, delle Tre croci di Rembrandt, dei livelli di photoshop,
di come si costruisce un buon incipit o dell’Otello di Shakespeare.
Se imparo e insegno, insegno e imparo. Le cose fluiscono, le idee crescono,
io mi sento meglio
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![](8)febbraio_07_file/image014.jpg)
Abelardo Morell, Two Tall Books, 2002 |
Venerdì,
23 Febbraio 2007
Mi racconti ancora la storia della mia nascita?
Forse era perché avevi fretta di nascere che ti sei messo un po’
nei guai quel 20 di febbraio. Eravamo nei guai tutti e due , a dire il
vero, e una dottoressa che aveva tutta l’energia e il piglio dei
personaggi di certi film americani disse Dobbiamo salvare questo bambino.
E ti salvò, insieme al dottor Fox. Presero tuo padre per la collottola
(come i carabinieri Pinocchio) e lo portarono fuori. Ma rimase vicino
alla porta a spiare da una fessura. Senza vedere nulla- disse- ma lì
sentiva di voler stare e lì rimase. Ti seguì quando uscisti
dentro l’incubatrice, si prese cura di te, ti battezzarono subito,
mentre io ero ben dentro il mondo dei sogni. Ti avevano messo un berrettino
azzurro . Eri bellissimo ma piccolino, pollicino, pesavi quanto un pacco
di zucchero smangiucchiato.
Dopo qualche ora, mentre io ancora smaltivo l’anestesia, partisti
in ambulanza da solo ( non si era mai visto in tutta Londra un bambino
così coraggioso) e ti portarono al St Mary’s. Noi arrivammo
il giorno dopo, eri circondato di infermiere da ogni continente, e chissà
che non sia nata proprio lì la tua grande passione per i luoghi
lontani. Mary, l’australiana, ti voleva un bene dell’anima.
C’era anche una giovane ragazza indiana che aveva un debole per
te, ma non ne ricordo il nome. Per una settimana e più ti chiamarono
come mio padre credendo che B. fosse il mio cognome da sposata. Mi piaceva.
Per la stessa ragione per un bel po’ chiamarono tuo padre Mister
B. Questa cosa mi divertiva molto.
I tuoi medici erano bravissimi. Dicevano sempre He’s a real fighter
. Noi ti comprammo dei guantoni da box in miniatura perchè fighter
eri davvero.
Con la primavera entrò dalla finestra la voglia di cantarti delle
canzoni, e ti cantavo piano quelle di De Andrè, soprattutto La
canzone di Marinella. Ti piaceva , come ti piaceva la mano di tuo padre
da stringere, da odorare. Lui, seduto accanto alla tua incubatrice , lesse
tutto il Don Chisciotte in spagnolo.
Il giorno in cui tu nascesti, una colomba bianchissima arrivò sul
terrazzo di tua nonna e in tanti la notarono. Rimase a lungo e la fotografarono.
Loro non sapevano ancora che eri nato (la nostra telefonata arrivò
qualche ora dopo) e pensarono a qualcosa di bello. Eri tu che ti annunciavi
prima del telefono?
Arrivasti a casa dopo cinque mesi, il 13 di luglio, vestito d’azzurro
, chiaro come il mare nel quale ami nuotare. Quel giorno riattaccammo
alla porta di casa il nastro lunghissimo che avevamo messo il 20 di febbraio,
lungo da attraversare la strada e stupire i passanti.
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![](8)febbraio_07_file/image015.jpg)
Bond of Union by M. C. Escher |
Martedì,
27 Febbraio 2007
Interno con ali e ricetta
Sei sedie in silenzio intorno ad un timido tavolo di tek ( da giardino
ma non è mai uscito dalla cucina). Qualche palloncino ancora a
terra, la festa è finita da sei giorni ma i segni colorati piacciono
a tutti. Un paio d’ali che non volendo rientrare nel baule di famiglia
si è appoggiato sullo schienale della sedia del bimbo più
piccolo (del resto sono loro, i più piccoli, che ancora vedono
gli angeli e l’aura). Sul tavolo, deserto come una piazza metafisica,
proietta la sua ombra né lunga né corta una fetta della
focaccia del nostro amico Gianni ( quattro uova , quattordici cucchiai
di zucchero, 1 tazzina da caffè di olio cuore, due tazzine da caffè
di latte, la buccia grattugiata di un bel limone grosso, un pizzico di
sale, farina quanto basta che la pasta non corra affannandosi se inclini
la terrina che la contiene , una bustina di lievito, due cucchiai di zucchero
sopra prima di infornare, temperatura media, tre quarti d’ora).
Me la mangio.
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![](8)febbraio_07_file/image016.jpg) |
Mercoledì,
28 Febbraio 2007
(istruzioni per imparare a nuotare)
Andare in piscina ascoltando e cantando Sinkin’ soon di Norah
Jones. Prendere il panico e far cadere le ultime quattro lettere. Con
quel che resta canticchiare tra sè e sè un’aria
a scelta, allegra con brio, per entrare in acqua. Pa pa ra pa pa pa
pa pa. Ascoltare Luca, fare tutto quello che dice , esultare quando
arriva il suo incitamento- brava laurette- (sorridere solo con la testa
fuori dall’acqua). Quando non ce la si fa non prendersela, mettere
la testa sott’acqua. Guardare, guardare, guardare. Ricordarsi
lo spettacolo dei blu. Ricordarsi i movimenti dell’acqua. Ricordarsi
che il rumore è nulla. I suoni meraviglia. Ripartire. Alle dieci
e dieci uscire dalla piscina.
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![](8)febbraio_07_file/image017.jpg)
Alessandro Papetti, Piscina |