Giovedì, 1 Febbraio 2007
Le rose di Mesola


Era una delle mie uscite intorno a Pasqua. Una consuetudine, per me che un po’ alla volta volevo vedere l’Italia e la sua arte. Ma quella volta chiesi se volevano venire anche loro, e dissero sì senza che io dovessi far fatica a convincerli. Mio padre e mia madre, seduti vicini nel salotto austero che è il sedile posteriore della due cavalli. Ci fermammo a Mesola che erano circa le dieci del mattino, l’ora giusta per arrivare al mercato nella piazza, vicino al castello. Dopo aver girato un po’ col naso per aria ci separammo con naturalezza e ognuno, in quella sosta che avevamo deciso, andò per la sua strada. Io entrai nel castello e visitai la mostra Viaggio in Italia. Loro rimasero nella piazza chi a guardarsi intorno, chi a girare per il mercato, chi a mangiare qualcosa. Quando ci rincontrammo per ripartire avevamo in più una pianta di rose rampicanti, tre chili di pane tre, cose nuove da raccontare e una dose non quantificabile di felicità nel cuore . Doveva essere solo una sosta ma credo proprio che fu quello il viaggio. Quella felicità ci seguì ovunque quel giorno e riempì la foto che scattai a loro due , vicini nel piano americano dell’inquadratura, come il latte sa riempire il bicchiere fino all’orlo. Ci penso ogni volta che faccio la Romea e passo da quelle parti, ogni volta che mangio il pane buono del ferrarese. Ogni tarda primavera quando fioriscono quelle che da anni chiamiamo le rose di Mesola.


Tina Modotti, Rose, Messico 1924

 

Lunedì, 5 Febbraio 2007
Perarolo


“Attento alla strada”.
“Ma non passano le macchine qui!”
Ne passano pochissime, è vero, e nel silenzio di un paesino che è stato tagliato fuori dal mondo con la costruzione della strada nuova, le poche che passano le senti che sono ancora lontane e le guardi come si guardavano una volta, magari scommettendo dentro di sé sulla targa (ultima cifra pari non mi ama, dispari mi ama).
A Perarolo di Cadore d’estate si cammina o si sta seduti sulle quattro panchine della piazza ( i sette bambini del paese giocano a pallone e gironzolano in bicicletta) , si tirano i sassi nel fiume, si prende il sole, si va al bar da Luigino almeno cinque volte al giorno e non solo per i gelati, si arriva al sasso della regina di Caralte, si ripassano i nomi degli alberi, si contano i verdi fino a confondersi e ricominciare. Si sale fino al ponte della ferrovia, si guarda se l’Antelao ha la cintura (pioggia sicura) o il cappello (o fa brutto o fa bello), ci si saluta dicendo Sani, si fa la spesa e Girolamo ti passa anche le ricette. Ci si affaccia la sera alla finestra per annusare il buio, ci si riaffaccia per sentire il fiume, si sente il treno passare dentro il bosco mentre si prepara la cena, si beve l’acqua dalla fontanella in strada, si sale su su fino a Dubiea (che suona bello come Dulcinea) o comunque si pensa che prima di tornare a casa ci si andrà. Si legge all’aperto, si mangia seduti sull’erba, si dorme bene , l’aria profuma, la luce trapassa l’anima. Si passa davanti al distributore abbandonato e sembra un corto circuito del tempo.
Non faccio fatica a capire perché Giovanni e Tommaso lo chiamano il paese più bello del mondo anche se bello non è. Anche oggi che siamo passati. E il countdown è già iniziato .


Edward Hopper, Gas , 1940

 

Martedì, 6 Febbraio 2007
Tre indizi certi

Primo indizio .Me lo dicono da sempre ma non conta, è quando te ne accorgi tu, come scrive Marquez in non so che libro, che stai invecchiando per davvero, quando ti accorgi che assomigli a tua madre o a tuo padre. E’ almeno un anno che me ne sono accorta. Guardo le foto di mia madre e mi pare di vedere un po’ me stessa. (Vabbè).
Secondo indizio. Ho una scatola di legno piuttosto grande dove negli anni ho messo le foto non riuscite quando ancora esistevano i rullini fotografici e si stampavano tutte. Roba da non credere, foto che allora occultavo perché mi trovavo orribile, ora mi sembrano apparizioni di fate. Evidentemente quella che vedo allo specchio ogni mattina è peggio. (Vabbè).
Terzo indizio. Il peggiore. Peggio delle rughe. Della smemoratezza. Quasi. La prescrizione inesorabile di un secondo paio di occhiali oltre quelli che da quattro cinque anni uso per leggere. Ho tentato di ribellarmi, Ma guardi che io ci vedo benissimo da lontano, no no. No, non li voglio! Signora è perché il suo occhio è elastico quando tra un pò non lo sarà più da un giorno all’altro non ci vedrà più. Mi par di vedere mia madre. Non Dove sono gli occhiali? Ma Dove sono gli altri occhiali ? Anzi , conoscendomi Dove sono le mie due paia di occhiali? (Aiuto).


Tomaso da Modena , ritratto del cardinale Ugo di Provenza (1352)
affresco, Treviso S. Nicolò (prima riproduzione di un paio di occhiali in pittura).

 

Giovedì, 8 Febbraio 2007
Eternity and a day

Mi piace molto l’immagine della copertina con l’uomo e il cane dentro un blu che diventa greco e mediterraneo per forza , visto il nome dell’autrice (Eleni Karaindrou). E’ la colonna sonora di un film che non ho ancora visto e scopro ora che l’attore protagonista, lo scrittore, è Bruno Ganz, che non ho smesso di amare da quella volta che ho visto che aveva quelle splendide ali . Il cd arrivò nelle mie mani per puro caso, lieve e inatteso come la neve a marzo, come segno di gratitudine di una coppia di conoscenti cui lasciavamo la nostra casa per una settimana mentre noi andavamo in Italia. Ma il ricordo legato per sempre a questa musica è quello di Giovanni che aveva appena iniziato a stare in piedi e su queste note iniziò a girare come la figurina di un carillon. Adesso che da due giorni sono schiantata dall’influenza e solo oggi sono riuscita a sedere a questa sedia ( senza riuscire a far altro che a giocare un pò con youtube), trovo un pezzettino del film e resto senza parole http://www.youtube.com/watch?v=tlv74NSNXTw).


 

 

Venerdì, 9 Febbraio 2007
Calore che continua


Dopo la morte di mio padre, navigai per lungo tempo in una strana dimensione. Continuavo a fare le cose di sempre, andavo a scuola e compravo il pane , camminavo in collina e vedevo amici. Ma niente era più come prima. Mi ripetevo mille volte i versi di Vittorio Sereni Adesso/ che di te si svuota il mondo e il tu/ falso vero dei poeti si riveste di te… e mi immaginavo questa particella di luce che esce dall’atmosfera della terra per essere accolta da una luce più grande, quanto più in su non so. Durò a lungo. Poi , un po’ alla volta , tornò una sorta di normalità , andrebbe sottolineato sorta di , ci si abitua alla sedia vuota, a un paio di scarpe in meno giù dalla scala, alla camicia a quadretti rimasta appesa e vuota della sua schiena, alle nostre vite svuotate dei suoi sorrisi e del suo odore buono di funghi e sottobosco. In realtà non si ha più il soprassalto ma quei vuoti non vanno più via, inattaccabili e adamantini come gli spazi vuoti catturati da Rachel Whiteread. Poi capitano cose che uno non s’immagina. Col bene che gli volevo, che gli voglio, m’immaginavo mi sarebbe venuta la voglia di andare spesso al cimitero . E invece ci vado di rado, tocco la lapide come vedo fare a mia madre, ma è così fredda. Lei ci parla, lì io non riesco, ogni volta che vado sto zitta e dentro provo a ripetere le preghiere di bambina e poi penso ai sepolcri del Foscolo, questo faccio. Mi appoggio con la schiena al muro di mattoni vicino alla cappella e le mie mani, non viste, grattano nervose i mattoni che con tutto quell’umido si sbriciolano. Un piccolo colpo di clacson per salutarlo ogni volta che passo in auto, questo sì. Ma è quando sono in studio e inizio che penso sempre ed invariabilmente a lui. Sento una forza nel braccio, qualcosa che dalla mano vuole uscire e in questo so che c’è lui che continua in me. Mi piace pensarlo così, grande angelo alle mie spalle ma anche energia e creatività dentro le mie vene. Calore che continua .


Rachel Whiteread
Untitled (Pink Torso) 1991
Lunedì, 12 Febbraio 2007
Rossetto per i baci


Il malato impara a vivere a fianco della sua malattia come si impara a stare in stanza con uno che non ti va e te ne combina di tutti i colori. Ma non hai scelta, quello lì ti è toccato per un po’, se ti va bene come può davvero accadere, tra un po’ va a farsi un giro e tu richiudi la porta a chiave.
Il malato dalla sua sventurata torre di vedetta osserva il rapporto del sano con la malattia. E’ un vedere particolarissimo. Me ne sono resa conto per la prima volta due anni fa, compravo tele e la titolare del negozio mi chiese come stavo (la conosco da vent’anni almeno). Sto abbastanza bene, solo che mi hanno trovato un tumore. Mi sto curando. Bella questa juta, non l’avevate prima…Un silenzio improvviso, lei visibilmente scossa. Ho lasciato cadere il discorso dentro il pozzo, che il pendolo dei pensieri continuava ad oscillare. La volta dopo alla stessa domanda mi sono guardata bene dal rispondere con immediatezza. Ho pensato è la categoria di persone che non vuol sentire parlare del male. Sto bene, ho risposto. Ho sorriso il mio sorriso più quotidiano e punto. La volta scorsa - ha detto con la voce rotta da un’emozione improvvisa- sono stata male per una settimana che mi hai raccontato quel che ti è capitato come se si trattasse di avere un raffreddore. E allora l’ho rincuorata, che il pianto arrivava al galoppo dentro il verde Transilvania dei suoi occhi lucidi. Le ho parlato dei progressi della medicina, ho citato casi e casi, veri ed inventati , di gente sopravissuta a mister K., le ho detto che ogni giorno torna a farsi infinito, più lungo, pieno di cose. Le ho fatto sentire la pellaccia e le ho detto Senti che roba. Non mi ha più trattato normalmente, mi fa sconti inspiegabili, mi regala cose, mi guarda come se fossi un eroe.
Sintetizzando ho individuato tre categorie fondamentali: 1) Quelli che ti chiedono come stai ogni singola volta che ti incontrano ma anche di più se passi del tempo insieme.Come stai? Bene. Sì, ma davvero…come stai? Il tono è compassionevole e fastidiosissimo, l’occhio sbarrato è la vigile macchina della verità che passerà la tua risposta e tutti i dati al setaccio. Qualcuno deve aver detto loro che facendo così di quella malattia là loro non s’ammaleranno mai. Sono terribili e infatti li temo. Loro sembrano non temer nulla. Mi metto il fard per loro e faccio gli scongiuri (so già cosa dicono alle mie spalle). 2) Quelli che non ti dicono niente e cui viene da piangere. Anche se tu in fondo fai quasi la vita di prima e hai più o meno lo stesso aspetto di prima, loro il libro l’hanno sentito raccontare, si proiettano verso gli ultimi capitoli, e vien loro da piangere. Viene da piangere anche a me quando li vedo. Hanno una paura umanissima della malattia. Mi disarmano, ecco. Mi fanno preoccupare, non mi fanno bene. Per loro mi metto il mascara waterproof. 3) Quelli che ti chiedono come stai ma come te lo chiederebbero comunque, uguale a prima, una volta ogni tanto. Sono così bravi che a volte sembrano essersi dimenticati che sono malata. Questo mi fa sentire così bene. Solo ogni tanto hanno nei miei riguardi un’attenzione come quando da bambini ti sistemano la sciarpa sulla bocca. Teneri, mi fanno ridere, mi ripeto và, mi fanno star bene. Sanno che la malattia arriva, poi forse va o forse no, come le nuvole che coprono il sole in una giornata estiva e non sai quanto si fermano . Da sposare sono, o li hai già sposati. Quando vanno via resta il loro abbraccio nell’aria. Per questi mi metto il rossetto.

Emil Nolde, Summer clouds, 1913
Mercoledì, 14 Febbraio 2007
Cambiare

Ieri ho regalato a Tommaso la mia vecchia grammatica di latino. Tra le pagine ingiallite ho trovato fogli fitti di esercizi. La scrittura non è solo scrittura, la scrittura è segno, disegno, è l’anima stessa che si alza in volo e che si trasforma in fili neri che poi cadono e diventano segno sul bianco neve del foglio. Sono rimasta a guardare quei segni a lungo, un abisso sembra separarmi da loro eppure ero io, a sedici o diciassette anni: parole scritte minute, vocali chiuse, lettere dritte e coi piedi ben piantati a terra. Se penso cos’è la mia scrittura ora, scompigliata dal vento, un lunghissimo domino che rovina giù felicemente a destra. Ma anche la pittura mi racconta la storia sempre stupefacente del cambiamento. Guardo i lavori dei miei vent’anni e ammutolisco davanti alla forza inapparente e all’ostinata tenacia con la quale appoggiavo velatura verde su velatura verde. Inesausta, paziente , credevo nei sogni, li vedevo laggiù e li chiamavo a me dando loro una mutevole sostanza e insieme respirandone a pieni polmoni l’impossibilità (bruciava freddo come le caramelle alla menta forte). E saltando a piè pari dentro il mio oggi, adesso sono il rosso, sono il qui, finalmente dentro il presente, avvitata dentro il mio giorno. Sono energia, comprensione. Quel che sognavo è accaduto, quel che sogno accadrà, sono stata molto felice, dentro le ombre ho preso la rincorsa per saltare nella luce. E sono felice, stasera. Sono un vento rosso e caldo. Si vorrebbe che non finisse mai quest’età.
Giovedì, 15 Febbraio 2007
In the shadow


Un’immagine sorprendente scoperta oggi per caso. Poco ci importa della casa vera, e ci incanta invece la casa che ha fatto il nido dentro la sua ombra. La casa vista e disegnata dai bambini, la casa che contiene il riposo, il volo e l’abbraccio, la casa fotografata da Abelardo Morell . E’ immaginazione e meraviglia. Puro incanto.

 


Abelardo Morell, Laura and Brady in the Shadow of Our House, 1994

 

Venerdì, 16 Febbraio 2007
Neve (non ho l’età)

L’abbiamo aspettata tanto e non è arrivata. Un giorno siamo stati collegati ore con accuweather e pareva dovesse arrivare alle due del pomeriggio. Si sentiva nell’aria, i bambini saltellavano quasi il loro corpo conoscesse una danza della neve. Alle due è arrivata, ma ha spolverato solo la cima delle colline e poi si è sciolta. Un giorno siamo andati da lei, in cima ad una montagna vera, ma anche là era poca, indurita, con buffi fili d’erba gialli che sbucavano da sotto. A Perarolo di Cadore uguale, pochissima, e per non far piangere i bambini che si aspettavano di fare un pupazzo di neve maestoso, il grande Normaton si è inventato che noi lì avremmo fatto il pupazzo più piccolo del mondo. Basta cambiar punto di vista, si sa e sono tornati a casa convinti di aver fatto qualcosa di memorabile. Non credo arriverà più, a questo punto lo spero. Per le gemme, i fiori di ciliegio, i bulbi e tutto il resto. Il grano già alto nei campi. Allora mi regalo e vi regalo questo video per bambini, la prima parte del quale mi incanta anche se non ho più l’età. Neve più paesaggi dall’alto più una canzone bellissima “Walking in the air”.
We’re walking in the air
We’re floating in the moonlit sky
The people far below are sleeping as we fly
I’m holding very tight
I’m riding in the midnight blue
I’m finding I can fly so high above with you
Far across the world
The villages go by like dreams
The rivers and the hills
The forests and the streams
Children gaze open mouth
Taken by surprise
Nobody down below believes their eyes
We’re surfing in the air
We’re swimming in the frozen sky
We’re drifting over icy
Mountains floating by
Suddenly swooping low on an ocean deep
Arousing of a mighty monster from its sleep
We’re walking in the air
We’re dancing in the midnight sky
And everyone who sees us greets us as we fly

 

 

Sabato, 17 Febbraio 2007
Va bene

Va bene così, che parto con l’idea di lavorare in bianco e nero e mi scappa il colore, che ho dentro sogni come castelli di carta sghembi, che da questa poltrona bianca provo a immaginarmi lo stupore di tutti quei bimbi al planetario. Va bene così anche se le parole si frantumano, le punte si spezzano, che prima ancora di uscire e vederle mi sento le colline intorno alle spalle come uno scialle . Va bene così che sto imparando ad essere paziente con me stessa, che mi curo il mal di schiena e tutto il resto, che scrivo storie d’amore e sembrano fantascienza del presente. Va bene anche così, che ho bevuto il tè da sola e non mi badano neppure stasera, persi ciascuno dentro un loro universo. E va bene così.

 


Alexander Calder

 

Lunedì, 19 Febbraio 2007
Ci sono colori che non so

Ci sono colori che non so dire. Come un maglione di Vincenzo che provammo una sera intera a dire di che colore potesse essere e alla fine decidemmo che quello era il color maglione di Vincenzo, o come le colline oggi pomeriggio che guardavo arrivando e più mi avvicinavo , più il colore scappava da ogni definizione e si faceva misterioso. Credo che allo stesso modo ci siano dei sentimenti che non si lasciano nominare e così come oggi le colline non erano grigie, non erano verdi, non erano terre bruciate, non erano viola ma un’impalpabile somma di tutto ciò nella variabile della lontananza, così ci sono dei sentimenti che sono la somma di tanti altri sentimenti nella variabile del tempo.

 

 

Mercoledì, 21 Febbraio 2007
Pit stop di carnevale

Il carnevale mi ha raggiunto a casa. Ho aperto la finestra per annaffiare dei fiori e sono passate sette streghe seguite da un gruppetto di maghi molto allegri e molto azzurri. Oh, hanno aperto il bar- ha detto uno di loro- e che bella barista (in realtà ha usato un’altra espressione, colorita come il suo naso ). Un macchiato, un fernet e non so che altro , stavano ordinando per gioco, e io ho servito per davvero Jameson di Dublino. E’ stato un pit stop breve e memorabile, chiuso da manciate di coriandoli nell’aria. Loro si son portati un retrogusto di whisky irlandese dentro la loro sfilata, io ho fatto entrare dei coriandoli di luce nel mio ultimo lavoro. Cinque minuti di vero carnevale anche per me, io barista, i maghi avventori.

 


Edouard Manet, Un Bar aux Folies-Bergères. 1881/82
Mercoledì, 21 Febbraio 2007
A lezione (le parole per dirlo)



Ero tornata sui banchi di scuola. Dovevo fare solo la fatica di ascoltare, di imparare. Alla cattedra c’era lui e non io. Paul. Un Paul di Dublino che assomigliava a Sting. Dopo anni mi ritrovavo ancora dall’altra parte , ad essere bottiglia che si riempie e non bottiglia che versa. Quella mia prima lezione di inglese lassù stava finendo che era mezzogiorno . Mi mancava davvero solo il grembiule e il fiocco.L’emozione era quella, e ogni volta che ho potuto ho cercato di ricrearla, di regalarmela ancora. Anche tornata a casa, e anche tornata alla mia cattedra , ho continuato a iscrivermi a corsi ogni volta che ho potuto. Mi piace stare nel punto preciso in cui passa la comunicazione, da una parte e dall’altra. Se potessi mi accoderei alle comitive che incrocio nei musei e in giro per le città (certo se poi la guida è noiosa lascio perdere subito), non si sa davvero mai dove si imparano le cose più importanti. Un giorno mi misi dietro ad una comitiva che ascoltava in silenzio davanti ad uno dei più bei dipinti di tutti i tempi, il Battesimo di Piero della Francesca. Dio cosa disse quell’uomo. Mi piace sempre sentire come uno fa a dirlo, le parole che usa, sia che si tratti del secondo condizionale, delle Tre croci di Rembrandt, dei livelli di photoshop, di come si costruisce un buon incipit o dell’Otello di Shakespeare. Se imparo e insegno, insegno e imparo. Le cose fluiscono, le idee crescono, io mi sento meglio

Abelardo Morell, Two Tall Books, 2002
Venerdì, 23 Febbraio 2007
Mi racconti ancora la storia della mia nascita?


Forse era perché avevi fretta di nascere che ti sei messo un po’ nei guai quel 20 di febbraio. Eravamo nei guai tutti e due , a dire il vero, e una dottoressa che aveva tutta l’energia e il piglio dei personaggi di certi film americani disse Dobbiamo salvare questo bambino. E ti salvò, insieme al dottor Fox. Presero tuo padre per la collottola (come i carabinieri Pinocchio) e lo portarono fuori. Ma rimase vicino alla porta a spiare da una fessura. Senza vedere nulla- disse- ma lì sentiva di voler stare e lì rimase. Ti seguì quando uscisti dentro l’incubatrice, si prese cura di te, ti battezzarono subito, mentre io ero ben dentro il mondo dei sogni. Ti avevano messo un berrettino azzurro . Eri bellissimo ma piccolino, pollicino, pesavi quanto un pacco di zucchero smangiucchiato.
Dopo qualche ora, mentre io ancora smaltivo l’anestesia, partisti in ambulanza da solo ( non si era mai visto in tutta Londra un bambino così coraggioso) e ti portarono al St Mary’s. Noi arrivammo il giorno dopo, eri circondato di infermiere da ogni continente, e chissà che non sia nata proprio lì la tua grande passione per i luoghi lontani. Mary, l’australiana, ti voleva un bene dell’anima. C’era anche una giovane ragazza indiana che aveva un debole per te, ma non ne ricordo il nome. Per una settimana e più ti chiamarono come mio padre credendo che B. fosse il mio cognome da sposata. Mi piaceva. Per la stessa ragione per un bel po’ chiamarono tuo padre Mister B. Questa cosa mi divertiva molto.
I tuoi medici erano bravissimi. Dicevano sempre He’s a real fighter . Noi ti comprammo dei guantoni da box in miniatura perchè fighter eri davvero.
Con la primavera entrò dalla finestra la voglia di cantarti delle canzoni, e ti cantavo piano quelle di De Andrè, soprattutto La canzone di Marinella. Ti piaceva , come ti piaceva la mano di tuo padre da stringere, da odorare. Lui, seduto accanto alla tua incubatrice , lesse tutto il Don Chisciotte in spagnolo.
Il giorno in cui tu nascesti, una colomba bianchissima arrivò sul terrazzo di tua nonna e in tanti la notarono. Rimase a lungo e la fotografarono. Loro non sapevano ancora che eri nato (la nostra telefonata arrivò qualche ora dopo) e pensarono a qualcosa di bello. Eri tu che ti annunciavi prima del telefono?
Arrivasti a casa dopo cinque mesi, il 13 di luglio, vestito d’azzurro , chiaro come il mare nel quale ami nuotare. Quel giorno riattaccammo alla porta di casa il nastro lunghissimo che avevamo messo il 20 di febbraio, lungo da attraversare la strada e stupire i passanti.

Bond of Union by M. C. Escher
Martedì, 27 Febbraio 2007
Interno con ali e ricetta

Sei sedie in silenzio intorno ad un timido tavolo di tek ( da giardino ma non è mai uscito dalla cucina). Qualche palloncino ancora a terra, la festa è finita da sei giorni ma i segni colorati piacciono a tutti. Un paio d’ali che non volendo rientrare nel baule di famiglia si è appoggiato sullo schienale della sedia del bimbo più piccolo (del resto sono loro, i più piccoli, che ancora vedono gli angeli e l’aura). Sul tavolo, deserto come una piazza metafisica, proietta la sua ombra né lunga né corta una fetta della focaccia del nostro amico Gianni ( quattro uova , quattordici cucchiai di zucchero, 1 tazzina da caffè di olio cuore, due tazzine da caffè di latte, la buccia grattugiata di un bel limone grosso, un pizzico di sale, farina quanto basta che la pasta non corra affannandosi se inclini la terrina che la contiene , una bustina di lievito, due cucchiai di zucchero sopra prima di infornare, temperatura media, tre quarti d’ora). Me la mangio.

 

Mercoledì, 28 Febbraio 2007
(istruzioni per imparare a nuotare)

Andare in piscina ascoltando e cantando Sinkin’ soon di Norah Jones. Prendere il panico e far cadere le ultime quattro lettere. Con quel che resta canticchiare tra sè e sè un’aria a scelta, allegra con brio, per entrare in acqua. Pa pa ra pa pa pa pa pa. Ascoltare Luca, fare tutto quello che dice , esultare quando arriva il suo incitamento- brava laurette- (sorridere solo con la testa fuori dall’acqua). Quando non ce la si fa non prendersela, mettere la testa sott’acqua. Guardare, guardare, guardare. Ricordarsi lo spettacolo dei blu. Ricordarsi i movimenti dell’acqua. Ricordarsi che il rumore è nulla. I suoni meraviglia. Ripartire. Alle dieci e dieci uscire dalla piscina.


Alessandro Papetti, Piscina