Venerdì,
1 Dicembre 2006
Pittura
Circumnavigando il tavolo raccoglierò le briciole della colazione,
studierò la nuova geografia della tovaglia prima di riporla
per il nuovo viaggio della sera, sgombrerò l’isola da
inopportuni tegami e padelle scontrose, consolerò la biancheria
rattristata dall’inverno imminente riponendola nei più
profumati e ombrosi cassetti, creerò piccoli venti di casa,
zefiri e phon, apro di qua e di là, tra questi venti ballerò,
sciarpa sul collo e scalza come se fosse il deserto questo tappeto
persiano di grigi e blu Parigi. Ripasserò col pennarello il
profilo splendido del controluce dei fiori alla finestra. Raccogliere
la polvere sarà lucidare il nuovo giorno. Riordinerò
i libri dei bambini e terrò bene in vista quelli senza lupi,
senza iene, senza orchi e senza notti buie peste (abbiamo già
dato). A quel punto, in silenzio, lieve e forte, verrò da te.
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Domenica,
3 Dicembre 2006
Crossroads
Astro del ciel. Mi è tornato in mente stasera, calpestando
foglie secche appena scesa dall’auto (quel marciapiede ne sa
cose di me). Freddo, non gelo ma freddo. Era il mio sogno di bambina,
cantare astro del ciel la notte di Natale. Ho aspettato un bel po’
d’anni, impegnandomi a cantare meglio che potevo nelle prove
del coro. Niente, zero spaccato. Passavano gli anni e sentivo che
non c’era verso: Antonella, la solista della notte di Natale
sarebbe rimasta sul suo trono a lungo. Era inarrivabile . E presi
altre strade. Lontane da quel marciapiede dell’andata e del
ritorno che era lo sfondo dei miei pensieri.
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Margherita Abbozzo, Crossroads,
1998 |
Martedì,
5 Dicembre 2006
E se fosse
E se fosse oggi il giorno più bello della mia vita? pensò
uscendo di casa.
Un due tre via e con quattro passi, una corsa bambina e i pochi gesti
calibrati che le servivano per caricare poche cose in macchina salì
e accese il motore. Il signor Mario passando sorrise il suo sorriso
d’altri tempi e salutò. Lei agitò la mano nell’aria
e sorrise il suo più bello.
Mentre aspettava che il cancello automatico si aprisse si girò
e vide la pianta di limoni sotto il portico. Le foglie erano intirizzite.
“Stasera ti metto il cappotto” le disse piano guardandola
fisso. Le bastava pensare la parola limoni e Montale le entrava nel
sangue. “Quando un giorno da un malchiuso portone/ tra gli alberi
di una corte/ ci si mostrano gialli dei limoni/; e il gelo del cuore
si sfa…” recitò dentro di sé.
Così partì quella mattina di dicembre.
Tornò alle undici e passa di sera. Salendo verso casa guardò
la propria ombra. E’ sempre la stessa –pensò sorridendo
- non invecchia, non è passata sotto un camion lei. E le venne
da correre nello stesso punto preciso dove aveva corso la mattina,
quasi un bisogno di simmetria nel giorno.
Entrata in casa raccontò cose, ma non le più importanti.
Non le riuscì ancora di dire le cose nuove , appena nate. I
nuovi colori, i segni nell’aria. La sensazione di essere rinata,
di potercela fare.
Si mise al computer ed iniziò a scrivere:
E se fosse oggi il giorno più bello della mia vita? Pensò
uscendo di casa di corsa…
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Edward Hopper, Night
Shadows, 1921, Etching |
Martedì,
5 Dicembre 2006
Miglia percorse (per L.)
Mia madre disse Portami ovunque, purchè tu mi porti via da
qui . Era estate e lasciato l’ospedale raccogliemmo le poche
cose che ci servivano e partimmo.
Il viaggio è sempre il viaggio, irresistibile , i pensieri
si sospendono in una dimensione diversa, ciò che è figura
diventa magicamente sfondo e se figura proprio vuol restare, prospetticamente
rimpicciolisce, almeno un pò. Mia madre, seduta sul sedile
posteriore della 2 CV, guardava come se tutto il mondo che scorreva
intorno fosse una vetrina. Far felici i bambini e gli anziani è
una gioia che non so raccontare, ma è tra le più grandi
che conosca.
Ma i vecchi, come si sa , brontolano e lei era preoccupata che quell’auto
non fosse sicura per raggiungere Zurigo ( Aiuto, co sta machineta
in autostrada, qua i me schinza. Ma ti te si proprio mata. E se a
se rompe par strada, cosa fonti?)
Ma la 2CV arancione sapeva il fatto suo, ed arrivò dove doveva
arrivare. Bisognava vederla valicare le Alpi, lenta ma sicura di sé,
seguita da una fila lunghissima di auto i cui conducenti avranno imprecato
persino in greco.
Arrivando la sera tardi in quel piccolo paese svizzero nei pressi
di Zurigo ci sembrò di essere quasi degli eroi, noi tre e la
2CV. Proprio allora si scatenò il finimondo, un temporale che
uno non se lo immagina neanche in Svizzera, non si vedeva più
nulla e oltre a ciò, essendo ignoti i luoghi , sconosciuta
la lingua ed incerte le indicazioni , tutto si fece complicatissimo.
Più di un’ora per ritrovare il bandolo della matassa,
sembrava che ci avesse inghiottito un buco nero inestricabile a due
metri dalla meta. A volte davvero non si sa dove si nasconda la difficoltà
e dove invece, contro ogni apparenza, tutto possa essere semplice
come il respiro.
(il dipinto è di Alejandro Quincoces, per vederne altri cliccate
qui) http://www.galleriaforni.it/artistiinesclusiva/Quincoces.html
“(…)
Quando si scoraggia, gli dico che se io ho potuto sopravvivere su
tre continenti, non ci sono ostacoli che non possa superare. Mentre
gli astronauti sono diventati eroi per aver speso poche ore sulla
luna, io sono rimasto in questo nuovo mondo per trent’anni.
So che la mia conquista è abbastanza ordinaria. Non sono l’unica
ad aver cercato fortuna lontano da casa, e sicuramente non sono il
primo. Eppure, ci sono momenti in cui mi sconcerta ogni singolo miglio
percorso, ogni pasto mangiato, ogni persona incontrata, ogni stanza
in cui ho dormito. Per quanto ordinario possa sembrare, ci sono momenti
in cui tutto questo supera la mia immaginazione”.
Jhumpa Lahiri, L’interprete dei malanni
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Mercoledì,
6 Dicembre 2006
Partire e arrivare
Mia madre disse Portami ovunque, purchè tu mi porti via da
qui . Era estate e lasciato l’ospedale raccogliemmo le poche
cose che ci servivano e partimmo.
Il viaggio è sempre il viaggio, irresistibile , i pensieri
si sospendono in una dimensione diversa, ciò che è figura
diventa magicamente sfondo e se figura proprio vuol restare, prospetticamente
rimpicciolisce, almeno un pò. Mia madre, seduta sul sedile
posteriore della 2 CV, guardava come se tutto il mondo che scorreva
intorno fosse una vetrina. Far felici i bambini e gli anziani è
una gioia che non so raccontare, ma è tra le più grandi
che conosca.
Ma i vecchi, come si sa , brontolano e lei era preoccupata che quell’auto
non fosse sicura per raggiungere Zurigo ( Aiuto, co sta machineta
in autostrada, qua i me schinza. Ma ti te si proprio mata. E se a
se rompe par strada, cosa fonti?)
Ma la 2CV arancione sapeva il fatto suo, ed arrivò dove doveva
arrivare. Bisognava vederla valicare le Alpi, lenta ma sicura di sé,
seguita da una fila lunghissima di auto i cui conducenti avranno imprecato
persino in greco.
Arrivando la sera tardi in quel piccolo paese svizzero nei pressi
di Zurigo ci sembrò di essere quasi degli eroi, noi tre e la
2CV. Proprio allora si scatenò il finimondo, un temporale che
uno non se lo immagina neanche in Svizzera, non si vedeva più
nulla e oltre a ciò, essendo ignoti i luoghi , sconosciuta
la lingua ed incerte le indicazioni , tutto si fece complicatissimo.
Più di un’ora per ritrovare il bandolo della matassa,
sembrava che ci avesse inghiottito un buco nero inestricabile a due
metri dalla meta. A volte davvero non si sa dove si nasconda la difficoltà
e dove invece, contro ogni apparenza, tutto possa essere semplice
come il respiro.
(il dipinto è di Alejandro Quincoces, per vederne altri cliccate
http://www.galleriaforni.it/artistiinesclusiva/Quincoces.html)
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Alejandro Quincoces
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Giovedì,
7 Dicembre 2006
Piccolissima storia senza figura
Entrò in ospedale che la chiamavano signora ed uscì
che la chiamavano signorina. Non era una clinica estetica. Non era
stata una cosa da niente come sembrava all’inizio.Ecco il suo
deca signorina. Due euro e settanta, signorina. Una cameriera di un
bar di Piazza del Popolo e un giornalaio, mezz’ora prima di
riprendere il treno che l’avrebbe traghettata a casa. Eppure
le fece così bene quel giorno che ancor oggi, quando raramente
la chiamano signorina, pensa a loro e al cielo terso di quella mattina
di febbraio a Piazza del Popolo.
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Sabato,
9 Dicembre 2006
Riconoscere
Come raccontava Marco Polo di ritorno dai suoi viaggi, ci sono soltanto
due modi per non soffrire l’inferno che soffriamo tutti i giorni.
Il primo riesce facile a molti, accettare l’inferno e diventarne
parte, fino al punto di non vederlo più; il secondo è
più rischioso, ed esige attenzione ed apprendimento continui:
cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno,
non è inferno, e farlo durare e dargli spazio. (Italo Calvino)
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Sabato, 9 Dicembre 2006
Cantina
E’ un luogo che mi ha sempre enormemente affascinato sin da
piccola, luogo di poca luce, di penombra, sulla quale acquistano risalto
e nitidezza i pensieri. Mi sedevo bambina a pensare, e mi giungeva
l’eco delle corse dei miei fratelli ed amici che preferivano
la chiara dimensione del giorno. Non che io non la ami. E’ che
a volte dalla penombra capisco meglio la luce. Mio padre e mio nonno
avevano costruito delle bellissime botti enormi, botti e tini. Quando
erano inutilizzati amavo entrarci e starci seduta, e sentirmi avvolta
, protetta. Odore stratificato dei vini, del legno delle botti nuove,
odore degli insaccati appesi in alto, odore di polvere, di funghi
talvolta, di mele renette, di patate. Che mondo era. Qualche tempo
fa alla Tate un’opera sublime di Anish Kapoor,
Ishi’s Light 2003, mi ha ricordato tutto questo. Nessuna immagine
di quell’opera potrebbe restituire neanche una frazione dell’emozione
che essa suscita. Le descrizioni ufficiali parlano di egg form ma
per me è la forma di una botte con un’ampia apertura
davanti. Il colore interno di questa grande scultura è stupefacente,
è il più profondo e caldo rosso che uno possa immaginare.
Lucente .Non bastasse questo a proiettare lo spettatore in una dimensione
immaginifica uno vede poi davanti a sé la propria immagine
in controluce capovolta e si resta là, a bocca aperta, abbracciati
da questo colore –ombra indefinibile. Meravigliati dalla luce
che genera.
Per vederne la riproduzione:
http://www.tate.org.uk/servlet/ViewWork?workid=79550
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Martedì,
12 Dicembre 2006
Two Figures in the Grass, 1954
Ci
sono quadri che mi porto dentro come una sorta di consolazione ( come
certe poesie che so a memoria e recito a me stessa quando sono lontana
dai libri, come certe canzoni, certi ricordi, certi profumi, certe
luci). Uno di questi è i due amanti nell’erba di Bacon
(Two figures in the grass, 1954). La pittura di Francis Bacon è
pittura lacerante, spietata. Non ci sono consolazioni di sorta nei
lavori di Bacon, gli attriti dell’esistere e lo spessore della
solitudine sono raccontati ferocemente. Certi incontri amorosi dipinti
da Bacon sembrano incontri su un ring, come forse è più
di quanto ci diciamo. Spesso le figure di Bacon sono chiuse dentro
dei profili che alludono ad una gabbia, ad uno spazio di solitudine
invalicabile per l’altro. Gli sfondi sono scuri o violentemente
smaglianti , sempre tragicamente piatti. I volti ed i corpi stravolti,
scomposti. E’ una pittura complessa, dolorante. Che lui abbia
dipinto quel quadro mi emoziona sempre. Tutto il nero dello sfondo
svanisce di fronte a quei corpi che si incontrano ed incontrano il
verde dell’erba. C’è una tregua, in questo dipinto,
ecco, sì, una tregua, nonostante la gabbia che li contiene
e il nero che li sta a guardare. Il mondo resta sconosciuto, misterioso,
terra desolata ma quei due si amano nell’erba, e dipinto da
lui, così, vale doppio. Per me.
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Bacon, Two figures
in the grass, 1954
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Martedì,
12 Dicembre 2006
Visitatori e corniciai appassionati
Da qualche tempo ho messo un contatore. Riesco a vedere diverse cose,
quanti visitatori naturalmente, ma anche da dove, le pagine più
lette, i tempi di permanenza e altre cose simili. Ogni tanto ci do
un’occhiata. L’altre sera ho scoperto un’altra opzione
e cioè i dettagli delle visite. Così, mentre i miei
quarantasette lettori leggono me, io ogni tanto guardo loro e mi sembra
di conoscerli un pochino. Leggo i nomi dei luoghi nei quali vivono,
noti e meno noti , vedo quante volte si sono fermati da me, quante
pagine hanno letto. L’altra sera un signore (o una signora),
alla sua duecentosettantesima visita nel mio blog, era on line mentre
io guardavo. Che emozione. Da un paese a pochi chilometri da casa
mia. Naturalmente mi sono detta magari ci conosciamo e poi chissà
se ha compreso che io abito qui, quanti indizi certi ho disseminato
della mia dimora geografica. Abbiamo forse lo stesso corniciaio, ho
pensato esultante, perchè il mio corniciaio abita proprio lì
vicino.
Il mio corniciaio ha solo una cosa brutta, il nome, un nome che rievoca
cose orribili della storia del secolo scorso. Ma poi conoscendolo
ci si dimentica e diventa un nome come un altro. E’ un uomo
esile, asciutto, d’inverno porta un berretto di lana che la
dice lunga sulla sua libertà di pensiero, lo porta lì,
nell’aria piena di polvere e segatura del suo negozio, lo porta
anche alle inaugurazioni più importanti. Quando parla di pittura
gli brillano gli occhi, da posizione ad abbagliante, direbbe un mio
amico. Che il suo negozio pieno di quadri di ogni tipo sia un’apparente
caos dove lui naviga sicuro è cosa abbastanza prevedibile.
Quello che risulta ai miei occhi sorprendente è la funzione
sociale che lui nel suo piccolo, quotidianamente e in silenzio svolge.
Sono rimasta a guardarlo diverse volte, basita. Che da incorniciare
sia una maglia da basket, un ricamo a punto croce, un’incisione
rarissima, un dipinto di uno studente dell’Accademia o di un
pittore affermato, lui ci mette la stessa passione. Una volta ci mise
un’ora per convincere una signora diciamo un pochino sprovveduta
sul versante estetico che una certa cornice sobria sarebbe stata di
sicuro la scelta migliore . Appena la signora uscì gli feci
i miei complimenti Raramente ho visto tanta pazienza e tanta voglia
di insegnare sottovoce qualcosa gli dissi. Lui bofonchiò qualcosa
e arrossì, come se fosse la cosa più naturale del mondo
stare a parlare con la gente di questi tempi.
Chissà se quel mio assiduo lettore va dallo stesso corniciaio.
E magari là sì, ci siamo incontrati.
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Martedì,
12 Dicembre 2006
Christmas card
Tra le cose che mi colpirono appena arrivata a Londra, c’erano
dei negozi, sempre affollati, dove si vendevano solo biglietti d’auguri
e davvero pochi altri gadget. Biglietti di buon compleanno, biglietti
per quando uno supera un esame , per quando uno trova lavoro, per
quando lo cambia e per quando va in pensione. Biglietti per quando
uno cambia casa, per quando gli nascono i figli, per quando li battesima,
per quando si sposa, si fidanza. Sicuramente ne ho dimenticati alcuni,
sicuramente non ho citato il protagonista assoluto e cioè il
biglietto di Natale e Buon Anno. Veri e propri riti. Mi ci volle un
po’ di tempo per capire che non potevo sottrarmi e dovevo scrivere
il mio biglietto a tutti. E anche scrivendoli a tutti e sforzandomi
e non tralasciando neppure il lattaio, me ne arrivavano sempre di
più, e allora via a comprarne degli altri. Erano molto belli
quasi tutti, alcuni bellissimi, com’erano straordinariamente
belli i francobolli della Royal Mail. Nei party sotto Natale poi ogni
tanto si sentivano i numeri Io ne ho avuti 103. Io 78. Tanti erano.
Erano disposti mirabilmente all’interno delle case, sui mobili
o sulle bow-window. Io stessa studiai un sistema : ne ricavavo delle
lunghe file che poi sistemavo sulla porta a vetri che dava verso il
giardino . Si muovevano , ruotavano e nuotavano d’oro nell’aria
del Natale. Il nostro massimo fu una sessantina, cifra raggiunta l’anno
che Tommaso iniziò a frequentare l’asilo e ricevemmo
la Christmas card da tutti i suoi compagni . Devo dire che non mi
mancano . Per quanto belli fossero , ho sempre avuto la sensazione
che fosse solo forma e non vi fosse in quei rettangoli di cartoncino
la sostanza di un augurio e di un abbraccio vero. Quasi mai. Nuotavano
bene nell’aria, questo sì.
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Mercoledì,
13 Dicembre 2006
Lavori su carta
Li appoggio dove capita, sopra la roba da stirare o quella appena
stirata. Il comò è la pista d’atterraggio preferita,
ma anche la libreria ne accoglie e ristora diversi. Uso il blue tack
e li appiccico al muro. Restano lì per mesi prima di migrare
e lasciar posto ai successivi. Giovanni, Tommaso e Normaton li trattano
come se fossero mobili, che dico mobili montagne, come se fossero
sempre stati lì e sempre dovessero rimanerci. Se cadono li
riappoggiano esattamente nello stesso punto. Capisco anche da questo
che mi amano. Così li posso guardare, mentre i pensieri si
chiariscono in me o si spappolano del tutto, mentre la lavatrice finisce,
mentre inizio il lavoro nuovo, mentre ceniamo, mentre cucino o pulisco
il pavimento, mentre accarezzo i capelli a quello grande e scompiglio
quelli del piccolo (poi dicono che il pastello si fissa bene con i
vapori della cucina). Intanto i muratori ogni giorno che passa salgono
un pochino, in quella vecchia casa che abbiamo avuto la follia di
decidere di mettere a posto, ogni giorno vanno un pochino più
su fino a quando arriveranno a fare il mio nuovo studio. Chissà
se la mia vita troverà una nuova pace allora, quando si riuniranno
tutti i i libri che per decenni sono rimasti separati, i quadri, i
disegni. Ma mi sa che i lavori su carta continuerò ad appoggiarli
per casa in bilico. Com’è vero che dipingo in ginocchio
anche ora che non servirebbe più e potrei alzarmi
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Laurette , Dormiente,
matita e pastello su carta |
Venerdì,
15 Dicembre 2006
(Regalo di natale) un’ora
Ci vediamo lì da circa due anni. L’idea era di farlo
una volta al mese ma ci riusciamo sì e no quattro cinque volte
all’anno. E’ un posto a metà strada tra casa sua
e casa mia che distano l’una dall’altra cinquanta chilometri.
E’ così a metà strada che una uscendo fa un sms
all’altra scrivendo Io parto ora e si arriva insieme. Un posto
che non c’entra niente con noi, ma a quarant’anni si lasciano
correre diverse cose. Sembra un saloon e non mancano neppure i cowboys
e le ballerine. Là mangiamo insieme e parliamo. Riusciamo sempre,
in una saletta o nell’altra, a trovare la campana di vetro dentro
la quale infilarci e il mondo sparisce, i rumori restano fuori, ovattati
e lontani. Inaspettato , dopo la semplice cena di roastbeef insalata
e vino rosso, ha tirato fuori dalla borsa un regalo per me, un cd.
Sono dieci brani - ha detto- ed è come se fossi io che mi voglio
mostrare a te in forma di musica. Ma mi devi promettere che lo ascolti
senza interruzioni, è circa un’ora. Lei sa che non è
così semplice per me, e dopo qualche istante ha aggiunto Se
vuoi andiamo a farci un giro in macchina e lo ascoltiamo ora. Quell’ora
è stata il regalo che lei ha fatto a me, e noi a noi stesse.
Iniziato il cd le parole le abbiamo lasciate tutte fuori dall’abitacolo
dell’auto. Tutte. Sembrava di essere dentro ad un film. Colonna
sonora lei in forma di musica e noi i protagonisti che viaggiano di
notte guardando il mondo fuori (ho in mente Bill Murray in Lost in
translation quando arriva a Tokyo e guarda la città e le sue
luci dal finestrino del taxi).Dentro noi due e musica, fuori il mondo
impacchettato per natale, la campagna ghiacciata che rispecchia il
cielo stellato, la notte che cela e culla mille illusioni, alberi
di natale che sono veri alberi di natale, alberi di natale che sono
solo disegno di un albero di natale fatto con le luci, ciliegi che
si vestono anche loro di luci , e così gli albicocchi e i cedri
e mi sembrano tante cenerentole che vanno alla festa , bellissime
e inattese. Dalla campagna siamo arrivate in città, abbiamo
sfiorato con gli occhi le vite di tanti, felici o no chi lo sa, in
ritardo in anticipo, in tempo, che correvano per amare o scappavano
da un amore. Poi lentamente, con il tempismo perfetto che lei conosceva,
siamo planate ancora nel saloon di cowboys e ballerine. Che viaggio,
che regalo.
(I brani erano di Ivano Fossati, The Klezmatics, Antony and The Johnsons,
Sollima, Dulce Pontes).
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Domenica,
17 Dicembre 2006
Giochi
Bambino: Mamma, perché i giochi che mi piacciono di più
sono sempre dove non ci arrivo?
Donna: Questa non la so, me lo chiedo anch’io, a volte. Quale
vuoi?
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P. Klee, Due differenti
annotazioni, 1934
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Martedì,
19 Dicembre 2006
Luce nell’ombra
Non sai mai quando capisci per davvero una cosa, non lo sai fino a
quando ti capita, ed anche allora non lo sai per certo e potrebbe
essere solo un piccolo tratto della strada che si fa per capire.
Io credo d’aver iniziato a capire la pittura di Rothko in una
libreria di Richmond, cercando dei libri per bambini e debordando,
visto che libri per bambini e libri d’arte erano vicini.
Lo conoscevo naturalmente da prima , ma fu in quella libreria che
mi fulminò. Mollai per terra le borse della spesa e mi immersi
in una pittura che mi parve contenere tutto quello che cercavo. Rimasi
lì per ore, quei due grandi cataloghi erano per me due mostre
nelle quali intrufolarmi come nel mondo di Lilliput. Pittura di contemplazione,
di stati mentali, di cose colte, per un istante ma colte. Fragilità
e durata, tragico ed estasi. Non ci sono linee diagonali, nessun effetto
illusorio prospettico di profondità, la pittura non vuole essere
il mondo, la pittura è lì per essere pittura. E colore,
composizione, dimensione diventano tutto, vastità dell’emozione,
vibrazione profonda, visione. Ho rivisto da poco i Seagram murals,
nel nuovo eccellente allestimento alla Tate. Sono dipinti che erano
stati commissionati a Rothko per The Four Season restaurant nel Seagram
Building di New York. Rothko vi lavorò a lungo ed alla fine
rinunciò alla commissione perché si rese conto che il
luogo al quale erano destinati li avrebbe snaturati. Vederli, nella
penombra che è stata studiata per loro, è un’esperienza
esaltante. Se ci si ferma e si dà agli occhi e a tutto il nostro
essere il tempo di entrare in sintonia, lo spazio materiale nel quale
si è entrati si disfa, si è sospesi e fluttuanti tra
colori e forme che iniziano a rilucere e a mandare bagliori lì
dove luce quasi non c’è, se non quella interna di chi
li ha pensati e dipinti. Questo è esaltante, che vi sia luce
dove sembrava non esserci.
Diceva Rothko: «Di tutte le capacità che un artista può
affinare con la pratica, la più importante è la fiducia
di poter operare un miracolo».
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Mark Rothko, White Center,1950
Private Collection |
Giovedì,
21 Dicembre 2006
L’arte li accarezza tutti
Poco importa dove andassi stamattina, scarpe col tacco alto o basso,
malumori o sorrisi intorno, buongiorno anche a lei, se era una cosa
verso la quale correvo o una cosa che mi toccava fare, parcheggio
facile o difficile, file attese stizza, caffè troppo lungo
o giusto per me. Poco importa chi abbracciavo nel mio pensiero, chi
e come non importa . E’ che camminando di ritorno verso la macchina
ho visto l’ombra di un fascio di rami rinsecchiti dall’inverno
proiettarsi maestosa contro il bianco di un cancelletto , un semplice
cancelletto bianco. L’ha accolta tutta, adornandosene. Era bello
come un Pollock mentre cresce, bello da fermarsi. La qualità
della luce di questa mattina creava la qualità dell’ombra,
della visione. Sono rimasta lì qualche istante e ho capito
che è questo il bello, che l’arte non smetterà
di scorrere dentro i miei giorni accarezzandoli. Tutti.
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Rudy Burckhardt: Jackson Pollock, Springs, New York, 1950
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Venerdì,
22 Dicembre 2006
67 (lettere spedite)
Edward Hopper, Automat, 1927
Desenzano del Garda, Tivoli, Firenze, Parigi, Amsterdam, Bassano del
Grappa, Piovene Rocchetta, Figline Valdarno, Asolo, Castelfranco di
Sopra, Modena, Monterchi, Anghiari, Bagno Vignoni, Assisi, Rimini,
S. Quirico d’Orcia, Maglie, Lecce, S.Maria di Leuca, Castro,
Torre dell’Orso, Londra, Stratford-upon-Avon, Birmingham, Bath,
Leeds, Winterthur, Rovereto, Zurigo, Fontanellato, Lugano, Bellinzona,
Atene, Khania, Sciacca, Scicli, Arezzo, Opatja, Portogruaro,Città
di Castello, Passariano, Ravenna, Parma, Traversetolo, Jesolo Lido,
Trieste, Roma, Lucca, Genova, Napoli, Modena, Agrigento, Grizzana,
Messina, Mesola, Scandicci, Dublino, Barcellona, Hursterpierpoint,
Bologna, Trento, Bolzano, Sasso Corvaro, Portobuffolè, Perugia,
Aix-en-Provence. Da ciascuno di questi luoghi, annotati con precisione
e cura in una piccola agenda consunta che ho visto coi miei stessi
occhi, ha inviato una lettera. Era sempre una gioia- mi raccontava-
quando la mano con la busta bianca entrava nel buio della cassetta
delle lettere e rimaneva un attimo sospesa, il freddo liscio del metallo
contro il palmo e il polso fino a quando il vuoto chiamava a sé
quelle parole tessute nel bianco. Quello era il momento più
bello, quando qualcosa accadeva, qualcosa partiva. Che cosa fosse
e dove andasse era un pensiero successivo. Così mi disse bevendo
il caffè. Aveva ventisette anni e amava le cose impossibili,
quelle che provano a forzare un limite. Quello dell’ovvietà,
per esempio. Quell’uomo le piaceva, non c’era dubbio.
Come parlava d’arte e come la guardava, le mani che aveva. Tuttavia
averlo non era ciò che cercava, o ciò che avrebbe potuto
aggiungere senso alla sua vita, al suo immaginare, al suo sognare.
No. Non era quello che le mancava, non era dunque quello che avrebbe
perseguito. Ogni volta aveva sezionato per notti il farsi e disfarsi
dell’amore alla luce tremula della ragione. Ogni volta. Tutto
si usura, tutto, pensava. Un senso profondo di atonia del pensiero
la prendeva, inconsolabile. Bisognerebbe che l’amore avesse
la consistenza di un lampione, una roccia, una locomotiva inarrestabile
e pure anche loro , oltre ogni apparenza , vanno di corsa verso il
niente. C’era un pensiero che da qualche tempo la seguiva. Far
fiorire un amore lieve ma intoccabile, e coltivarlo. Un amore del
quale uno sapesse che era esistito ma nessuno potesse sapere altro
e nessuno potesse scalfirlo. Iniziò così, mi disse ,
il mese di marzo del 1985. Scelse , tra tante citazioni amatissime,
quella che combaciava perfetta con la sua anima.Come il coperchio
con la pentola, la tenda col vetro della finestra , la scarpa con
l’impronta. Ne ricavò molte copie, preparò altrettante
buste con l’indirizzo di lui scritto a macchina. Ogni volta
che andava via, posti vicini o lontani o lontanissimi, c’erano
cinque minuti in cui si eclissava per cercare la buca delle lettere.
Da tutti quei luoghi spedì a lui una lettera. Lui mai avrebbe
saputo chi, cosa , perché e poi perché non più.
Erano cinque righe di alta letteratura, parlavano d’amore. Cinque
righe che sessantasette volte in due anni , senza regolarità
di sorta nella cadenza temporale, gli piovvero da posti a caso dell’universo,
piovvero nelle sue belle mani dalle dita lunghe.
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Sabato,
23 Dicembre 2006
Stella
Renè Magritte, L’impero delle luci, 1954
Ogni volta me ne accorgo perchè è un po’ buio
in cucina e guardo scocciata lo scuro che si è socchiuso. Eppure
non mi sembra ci sia vento, penso. Apro la finestra, lo spalanco meccanicamente
seguendo i miei pensieri e solo allora mi accorgo che lo scuro è
stato accostato per fare da casetta nell’angolo del davanzale
ad un cartoccio o a un sacchetto da panificio. Ogni Natale, ogni Pasqua,
quando è il tempo delle ciliegie e quando le galline fanno
molte uova a primavera. Stella passa e lascia il segno del suo affetto
per i miei figli, per noi. Senza mostrarsi, senza parole. Stamattina
ovetti di cioccolata, un Babbo Natale avvolto in stagnole argento
e rosso, ma anche un pacchetto di caffè Splendid per me. Nel
sacchetto bianco candido e stirato del panificio a duecento metri
da qui. Certo, suo marito era cugino di mio padre, certo mio figlio
maggiore ha lo stesso nome di suo marito e di mio padre, ma lei come
fa ad essere così non so, a non scordarsi mai, a essere sempre
presente silenziosa. E’ una donna di settant’anni e più,
di poche parole e sguardo dritto negli occhi. Passa qui davanti ogni
mattina e sembra, con le scarpe grosse da campagna ed il grembiule
blu da lavoro, la memoria storica di quel che c’era qui ed è
passato troppo in fretta. E’ passato Babbo Natale ? hanno detto
i bambini leggendo l’espressione di sorpresa sul mio volto mentre
aprivo il sacchetto. No, la Stella, il nostro angelo. Ed abbiamo sconvolto
la prima colazione mangiando tutti cioccolata. Questo piccolo racconto
di stamattina lo metto in un cartoccio alla finestra stasera, per
augurare giorni belli e sereni a tutti quelli che passano di qui.
E un anno nuovo felicissimo. (grazie)
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Mercoledì,
27 Dicembre 2006
Ultimi giorni dell’anno
Ho sempre sentito molto gli ultimi giorni dell’anno, mi sbuca
fuori una voglia incontenibile di guardare indietro e capire com’è
andata, cosa ho combinato di buono, cosa ho capito. Mi viene voglia
di buttar via quel che non serve più, le vecchie carte, le
cose che non hanno soluzione e forse non sono problema mio. E nelle
sere che si adornano di una luna turca immagino fuochi che scoppiettano
a bruciare l’inutile, anche quello che germoglia dentro i miei
pensieri. Di quest’anno che dire. Come osservando le immagini
ambigue non si riesce a vedere insieme l’una e l’altra
figura, ma si percepiscono solo alternativamente, e vedi l’eschimese
e poi l’indiano, la giovane e poi la vecchia, così io,
mi accontento ora di sentire che qualcosa di buono ho fatto, senza
essere mai capace di fare bene tutto. Ho saputo passare il mio tempo
con Giovanni quando gli serviva? Non lavoro da tre giorni al nuovo
dipinto. Bellissimo il nuovo lavoro? Non ho fatto la spesa e domattina
Tommaso non avrà in cartella l’amatissimo panino col
salame di Milano che gli allarga il sorriso da un orecchio all’altro.
Ho fatto una bella lezione sul Romanticismo o sull’immagine
pubblicitaria? Vado a letto troppo tardi e a Normaton non piace di
sicuro ed ha ragione. Ho scritto un bel post? Il risotto era senza
sale perché pensavo alle parole. La macchina brilla come quelle
della televisione? Arrivo in ritardo dall’architetto, compro
il pane, dimentico lo zucchero. E pazienza. Capisco che faccio il
lavoro più bello del mondo e dopo tre mesi forzati a casa,
a scrivere e disegnare che non è che non so cosa fare, mi manca.
Dopo tre mesi i ragazzini ancora si girano a salutarmi agitando la
mano quando passo in macchina, e qualche motivo ci sarà (oltre
al fatto che io non smetto di farlo come loro). (Poi mi sembra quasi
d’aver imparato a vivere dentro il presente. Lo metto tra parentesi
come a dirlo piano, che quasi non mi sembra vero. L’ho imparato
di botto, curioso perché ci provavo da almeno vent’anni.
Che siano cinquanta i giorni che ho davanti o cinquemila o quindicimila,
non me ne voglio lasciar fregare neppure uno . Sono miei.Non metterò
più in standby la mia vita aspettando un esito, qualcosa che
arriverà. Da quel giorno che si tornava in macchina dall’IEO,
entro dentro il mio giorno prima ancora di entrare dentro i miei vestiti
la mattina. E ci resto fino a quando chiudo gli occhi la sera nel
letto. Là poi, vado nel pensiero dove mi pare).
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Bruegel il Vecchio, Cacciatori nella neve
Kunsthistorisches Museum di Vienna |
Mercoledì,
27 Dicembre 2006
Parto
Chi mi conosce e sa che creatura educata e compita sono, non ci crede
quando Normaton, unico testimone, la racconta divertito. Imprecavo
in italiano rivolgendomi alla malcapitata infermiera e poi traducevo
in inglese (ma che c… scrivi mentre io soffro così, what
the hell are you writing while I’m in such a pain). Di più,
battevo i pugni sul monitor, una cosa che ancora adesso stento a credere
io stessa di aver fatto. L’epidurale mi aveva tradito ma peggio
ancora mi fece perdere il lume della ragione. Non mi sono mai arrabbiata
così tanto in vita mia, e forse dovrei farlo ancora ogni tanto,
sputar fuori il veleno, che chi lo fa sta meglio dopo. Quando il dolore
finì, e nacque Giovanni, io interpretai alla perfezione la
parte della donna più felice del mondo. Normaton mi eguagliò,
con un sorriso incollato sul volto che immortalai io stessa. Strani
come sono gli inglesi, mi mandarono quasi subito a farmi la doccia.
Attraversando da sola il lungo corridoio, mi sembrava di essere un
eroe anzi l'eroe, il protagonista di Mission quando arriva sopra la
cascata e può lasciar andare il fardello della fatica. Sentivo
la musica del film persino e non escludo di averla fischiettata insaponandomi.
Tu ti sei annunciato subito in tutta la tua bellezza, rosa, rotondeggiante,
bello come il sole. Quel giorno ho capito una volta di più
che la natura sa il fatto suo, dormisti tutto il giorno e anche oltre,
il tempo giusto che mi servì per riprendere le energie. Io
ti guardavo, e dormivo, ti guardavo e finivo di leggere Il barone
rampante che per me resterà per sempre legato al ricordo della
tua nascita.
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Domenico Gnoli 1957
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Venerdì,
29 Dicembre 2006
Agende
Ricordo benissimo i numeri di telefono che uso con regolarità,
spesso chiedono a me che numero ha tizio o caio, ma quando si tratta
di guardare nelle rubriche delle agende degli anni passati vado sempre
incontro a brutte sorprese. Se mi spingo così indietro da sfogliare
quelle di quattro cinque anni fa, mi sembra di aver avuto una doppia
vita che non ricordo più, avventurosa e piena di suoni di paesi
lontani. Tra un centinaio di nomi ce ne sono almeno quindici che non
mi dicono assolutamente nulla, come se qualcuno , dispettoso, li avesse
trascritti lì per farmi dubitare della mia memoria. Nomi e
cognomi vergati con cura, annotando meticolosamente indirizzo con
tanto di codice di avviamento postale e numero di telefono. Anche
sforzandomi a lungo di ricordare… niente, un inquietante e fastidiosissimo
vuoto cerebrale. Luoghi che neanche so di aver mai sentito nominare.
Ma anche oggi, trascrivendo gli indirizzi dall’agenda di quest’anno
a quella dell’anno in arrivo ho trovato più di qualche
enigma in agguato. Non mi posso più permettere questi dubbi
sulle mie capacità intellettive ed allora ho deciso che una
strategia va tentata, adottata ed applicata rigorosamente. Accanto
a ciascun numero di telefono devo scrivere d’ora in poi di chi
è e poi la professione, fotografo, insegnante , contadino (
radicchio e ciliegie), mamma di bambino dell’asilo, carpentiere.
Potrebbe già aiutarmi molto. Oppure nome cognome e segni particolari
tipo Cinzia D., mamma di Vittoria, compagna di classe di Tommaso,
occhiali da sole anche quando piove, Alessandro R. gambe corte e simpatico,
fischietta la mattina, Umberto, collega di Normaton quello cui piace
la filosofia. Devo mettere dei ganci dove la mia memoria irrazionale
si appigli ed io non naufraghi nello sconforto di una nebbia conoscitiva.
Forse mi devo ancorare ad un dettaglio, da scrivere accanto al nome.
Anna ,capelli rossi come un Dante Gabriele Rossetti, Giulia reclina
il capo come una donna del Botticelli, Lorenzo che ha i baffi di Paolo
Conte, Margherita una testa di capelli come Domiziana Giordano di
Nostalghia. Qualcosa mi devo inventare, non so, non so, così
non si può andare avanti.
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Sabato,
30 Dicembre 2006
Casa piccola e casa che tocca il cielo
La casa è piccola e noi quattro tipi impegnativi. Ci siamo
dati la regola di non comprare più nulla se non ciò
che è davvero necessario ma non ci stiamo riuscendo. O forse
sì e di certe cose non si può fare a meno, e in casa
entrano , clandestini nelle borse, libri e libri. Normaton ed io ci
guardiamo, complici nel trasgredire e poi nello sconforto di uno spazio
vuoto che non c’è più da nessuna parte. Giovanni
è in una fase di grande esuberanza creativa e tanti suoi lavori
hanno già una collocazione permanente in casa: uccellini di
terracotta, renne fatte con i contenitori vuoti dell’ammorbidente,
collane lunghissime di stagnole, alberi di filo di rame e bottoni,
pitture di vulcani e arcobaleni. I disegni sono in media venti al
giorno : castelli e arcieri , mostri, noi di casa e la casa, la casa
che verrà, grande che arriva fino al cielo. Poi copia i geroglifici
e scrive. Pesca tra i libri di suo fratello e copia lettere e parole
riuscendo ormai a leggere da solo le parole piane. Ogni giorno si
rigenera una mole di fogli che vagano dal pavimento al divano, al
tavolo. Roba da tenersi duri, oltre ai miei disegni anche i suoi.
Non se ne può più. Tieni i più belli, mi ha detto
un’amica, io ho fatto così, chiaro che non puoi tenere
tutto. Ieri sera era di spalle e ho preso velocemente dal pavimento
un foglio dove aveva vergato un alfabeto incerto. Sgamata dopo cinque
secondi. Mamma ma ti sembra il caso di mettere le bucce delle patate
sopra i miei disegni? Non sapevo più che pesci prendere. Ma
non è un vero e proprio disegno, avevi anche fatto la enne
storta. Cartellino giallo, me lo sono sentita sulla schiena come un
pesce d’aprile. Oggi ho adocchiato una bandiera di carta e foglie
fatta l’estate passata durante i centri estivi. L’ho valorizzata
al massimo allora, l’ho appesa, l’abbiamo sventolata quella
sera della finale e ci portò anche bene. Ora è tempo
di farla sparire, non c’è posto e poi è un ricettacolo
di polvere con tutti quei pezzetti di carta appallottolata. Non ho
fatto neanche in tempo a staccare l’asticciola che Tommaso è
sbucato guardandomi con sguardo da cartellino rosso Perché
vuoi buttare la bandiera di Giovanni? Io? Volevo solo vedere come
si stacca e riattacca questo cavolo di bastone. Vado a farmi un giro,
ciao, vado a dire ai muratori che si diano
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Domenica,
31 Dicembre 2006
Di te (31dic.06/01.47 a.m.)
Di te in fondo non so quasi niente, penso stanotte. So solo che
ami guardare il silenzio planare sulle cose, la musica allargare
le ali nell’aria. Ami leggere. Conosco lo sguardo obliquo
del tuo pensiero, i tuoi occhi di eterna ragazza. So che ci sono
pensieri che come onde ti percorrono quando pensi a lui e che gli
anni passati ti sono serviti per svuotare la casa di tutto l’inutile
. Ora stai nella luce, sola con te stessa ogni volta che ne hai
voglia ed hai un chiarore dentro che posso vedere da questo lontano
qui. Buon anno, cara.
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Domenico Gnoli, Armchair, 1967
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